di Bruno Soro
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“(…) se le nazioni possono imparare a crearsi una situazione di occupazione piena mediante la propria politica interna (…) non è più necessario che le forze economiche importanti siano rivolte al fine di contrapporre l’interesse di un paese a quello dei suoi vicini. (…) Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è attualmente, un espediente disperato per preservare l’occupazione interna forzando vendite di merci sui mercati stranieri e restringendo gli acquisti – metodo che, ove avesse successo, sposterebbe semplicemente il problema della disoccupazione nel vicino che ha la peggio nella lotta – ma sarebbe uno scambio volontario e senza impedimenti di merci e servizi in condizioni di vantaggio reciproco.” J.M. Keynes, da “Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre”, UTET, Torino 1971, p. 526.
Il giorno di S. Valentino il professor Mario Deaglio, con la sua consueta lucidità, poneva ai lettori di La Stampa, il seguente interrogativo: “Se è ragionevole che l’Europa favorisca con strumenti economici l’instaurarsi della pace e la trasformazione dell’economia ai suoi confini (l’Ucraina), perché non estendere il ragionamento alla Grecia, che ha solo problemi economici e si trova dentro ai confini dell’Unione Europea e della zona euro?” (“Il prezzo della pace in Europa”, sabato 14 febbraio). Una possibile risposta a quell’interrogativo, altrettanto lucida nella sua visione ideologica, l’aveva già fornita qualche giorno prima, su quello stesso quotidiano, il “giornalista, scrittore, e studioso libertario italiano” – come si legge su Wikipedia -, Alberto Mingardi, noto assertore della politica del «laissez faire» (“La doppia morale di Tsipras”, mercoledì 11 febbraio). Richiamandosi alle parole del Primo Ministro greco, “Secondo Tsipras – scrive Mingardi -, «l’austerità non ha soltanto impoverito il nostro popolo, ma lo ha privato del diritto di decidere».
Decidere, ma coi soldi di chi? Vale la pena di riflettere su questi due (opposti) punti di vista.
Il punto di vista sotteso alle riflessioni di Deaglio è quello di un profondo conoscitore dei problemi dell’Economia internazionale che si rifà a quel “contesto di cooperazione tra pari” che, nel settembre del 1941, aveva ispirato il primo progetto di unione monetaria internazionale, elaborato da John Maynard Keynes allo scopo di fissare le regole del nuovo ordine internazionale dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale per contrastare le svalutazioni competitive. Il piano di Keynes era incentrato su un nuovo standard (una moneta denominata «bancor») gestito da una banca mondiale, in un contesto, appunto, di cooperazione tra pari. Quel piano si reggeva su tre pilastri: un sistema di parità fisse, ma aggiustabili tra le monete: una banca mondiale in grado di emettere una moneta internazionale e un fondo internazionale di stabilizzazione per compensare i vantaggi e gli svantaggi del sistema di parità fisse. All’epoca, il Regno Unito, stremato dallo sforzo bellico, era un paese fortemente debitore nei confronti degli Stati Uniti e questi ultimi un paese fortemente creditore.
I lavori della Conferenza di pace di Bretton Woods, che ebbero inizio il 1° luglio 1944, videro contrapposti due progetti: quello del delegato inglese John Maynard Keynes e quello del delegato USA Harry Dexter White. Dopo tre settimane di accesi dibattiti i 730 delegati delle 44 nazioni alleate approvarono il piano patrocinato dagli USA, che si riproponeva sì di dettare le regole di convertibilità tra le monete, ma in un’ottica di supremazia degli Stati Uniti e con il dollaro, ancorato all’oro, quale moneta da utilizzare negli scambi internazionali. Quel sistema resse poco più di un quarto di secolo, garantendo peraltro quel periodo di elevata espansione economica dei paesi occidentali dagli storici denominato, non a caso, la Golden Age dello sviluppo economico. Ma con la dichiarazione dell’inconvertibilità del dollaro in oro dell’agosto del 1971 dell’allora Presidente degli Stati Uniti Richard Nixon, quel sistema collassò, favorendo l’instaurazione del nuovo sistema dei cambi flessibili, nel quale le valute potevano fluttuare liberamente sul «mercato valutario». Con tutta evidenza, il «tallone d’Achille» del sistema dei cambi fissi di Bretton Woods era l’ancoraggio del sistema ad un’unica moneta, il dollaro convertibile in oro. Nel corso degli anni ’50 e ’60, infatti, la massa di dollari in circolazione in Europa a seguito del Piano Marshall (denominati «eurodollari») e all’acquisto di prodotti petroliferi dai paesi produttori di petrolio (denominati «petrodollari») è andata moltiplicandosi enormemente. Nel frattempo, inoltre, gli Stati Uniti da paese creditore negli scambi internazionali erano divenuti, anche in seguito alle attività belliche, un paese debitore, che sarebbe stato costretto a saldare i suoi debiti in oro.
A distanza di pochi mesi dall’implosione di quel sistema di cambi fissi, i paesi che avevano aderito alla CEE istituirono nel 1972 il Fondo Europeo di Cooperazione Monetaria e adottarono, al fine di ridurre le oscillazioni tra i tassi di cambio delle monete all’interno della Comunità (e tra queste e il dollaro), il cosiddetto «Serpente monetario», un accordo di cambi semi-fissi (o semi-variabili se si preferisce), incentrato sulla sola moneta tedesca. In seguito agli effetti inflazionistici dovuti alla prima crisi petrolifera, e agli attacchi speculativi sulle valute considerate più deboli, con l’uscita da quell’accordo del Regno Unito, dell’Irlanda, dell’Italia e della Francia, anche quel sistema implose. Sette anni dopo, tuttavia, il Consiglio Europeo istituì il «Sistema monetario europeo» (SME), con il quale gli stati membri si impegnavano a contenere le oscillazioni nei tassi di cambio entro precisi limiti. Questa volta, però, anziché su una sola moneta, l’accordo si reggeva su una nuova unità di conto, denominata ECU (European currency unit), che avrebbe dovuto servire quale mezzo di regolamento fra le autorità monetarie dei paesi della CEE. A seguito dell’attacco speculativo alle rispettive monete, nel 1992 uscirono dallo SME sia la Gran Bretagna che l’Italia: il sistema entrò in crisi, ma non implose. Infine, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht il 1° gennaio del 1993 vennero gettate le basi per la creazione della moneta unica che vedrà la luce sei anni dopo (in forma virtuale) e definitivamente il 1° gennaio 2001 con l’introduzione dell’euro.
Prescindendo dunque dal tortuoso significato politico di quella decisione (l’intento, finora abortito, di giungere attraverso l’euro alla creazione di uno Stato federale), è indubitabile che la moneta unica si riduca alla sua vera natura: un sistema di cambi fissi. Un sistema nel quale i paesi fortemente esportatori (la Germania in primo luogo) risultano avvantaggiati dall’impossibilità della rivalutazione della (loro) moneta e quelli fortemente importatori (principalmente i paesi dell’area mediterranea) impossibilitati a vedersi svalutata la (loro) moneta. Di qui la «ragionevolezza» auspicata dal professor Deaglio: in assenza di un sistema di compensazione dei vantaggi e degli svantaggi derivanti dall’adozione della moneta unica, vale a dire in assenza di una autorità federale in grado di gestire la politica fiscale con interventi direttamente mirati ad intervenire sull’economia reale delle economie più deboli, il sistema è destinato prima o poi ad implodere.
Con quali conseguenze, e con buona pace degli ideologi assertori della politica del «laissez faire», ce lo ha rammentato lo stesso Keynes nelle “Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre”: «La guerra ha parecchie cause. Dittatori e simili cui la guerra offre, almeno come aspettativa, una piacevole eccitazione, trovano facile operare sulla bellicosità naturale dei loro popoli. Ma al di sopra di questo, a facilitare il loro compito e ad alimentare la fiamma popolare, vi sono le cause economiche della guerra, vale a dire la pressione della popolazione e la lotta per la conquista dei mercati in concorrenza». Un pensiero preceduto da quel monito premonitore dell’autunno del 1919 quando ebbe a scrivere che: “Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale (come oggi ad impoverire l’Europa meridionale), la vendetta, oso predire, non si farà attendere” (“Le conseguenze economiche della pace”, Adelphi, Milano 2007, p. 212). Le milizie dello stato islamico bussano già alle porte dell’Europa e i populismi nostrani stanno affilando le armi dentro i suoi confini. Ma tu, amico caro, se sei povero, «fatti furbo» e pensa agli affari tuoi.