Pensavo di avere chiuso il sostanzioso spazio dedicato al leggendario Bar Perù di viale Medaglie d’Oro con la puntata di sabato scorso. Mi sbagliavo, per fortuna vorrei aggiungere. Un paio di mail e una telefonata mi hanno dato la sveglia. Perché – citando la mia amica Giorgia Barosso, raffinatissima cantante jazz (una delle meraviglie della Città Grigia) – ci sono ancora storie da raccontare.
Allora, in primis ho dimenticato di menzionare uno dei “distaccamenti” più significativi del Perù: la ditta di elettrodomestici dove lavorava Jack. Si può tranquillamente menzionare perché non esiste più da tempo: era la ditta Cacciola, posizionata in quella specie di minima piazzetta che si crea all’incrocio di via Cavour con via Lodi, dove oggi si vendono tappeti. Lì non si acquistavano soltanto televisioni e frigoriferi, ma ci stava un ampio banco dischi gestito, appunto, dal Jack. Il nostro, non facendo mistero che, se lo andavi a trovare, lo aiutavi a far trascorrere più velocemente le lancette del tempo, ti ricompensava alla sua maniera offrendoti sigarette (Marlboro) a manetta e facendoti ascoltare 45 e 33 giri non proprio così scontati. Era l’epoca musicale della British Invasion, dominata dalla tenzone Beatles versus Rolling Stones, ma Jack, ben al corrente che, quando passavo io, si trovava di fronte a un vorace ascoltatore, sosteneva a ragione che il panorama era ancora più interessante e variegato. Così, massacrandomi i polmoni e riducendo quella saletta a una distesa nebbiosa (soprattutto perché spesso si aggregavano altri peruviani), Jack mi fece conoscere gruppi che si chiamavano Dave Clark Five, Searchers, Rockin’ Berries, Kinks e altri ancora che, sull’onda dell’archetipica formazione chitarristica dei protobeat Shadows, rappresentavano notevoli alternative d’ascolto agli scarafaggi e alle pietre rotolanti. Mi ricordo – e scusate l’inciso, forse troppo “tecnico” – che, quando Jack passò On Broadway dei Dave Clark, lui profetizzò: «Vedrai che questa canzone non ce la togliamo più dalle palle», e, se non sono certissimo delle parole usate, vi garantisco che il succo era quello. Beh, allora non lo sapevo, ma neppure quella dei Dave Clark non era neppure la prima versione, perché On Broadway l’avevano incisa per primi i Drifters nel ’63 e sarebbe divenuta immortale, assurta al rango del mito – dopo innumerevoli cover dei Coasters, Bobby Darin, Percy Faith, Frank e Nancy Sinatra, etc – dalla clamorosa versione live del ’78 di George Benson, che è il paradiso terrestre di chiunque sul pianeta imbracci la chitarra. A inciso terminato e a bocce ferme, era palese che Jack fosse l’Alan Freed alessandrino della sua epoca perché ci capiva come pochissimi altri con un gusto non allineato e quanto mai raffinato. E a suo modo Jack intendeva fare proseliti. E temo che con me in buona parte ci sia riuscito. It’s all right, Jack!
Ma, visto che abbiamo parlato di bocce, mi tocca esternare di essere stato rimbrottato per non essermi soffermato a dovere sulla sala biliardo alle spalle del banco bar del Perù. In verità l’ho fatto, ma certo non ho approfondito che là dietro i peruviani giocavano anche, soprattutto, a boccette, stecche e Goriziana. Il mio critico bonario mi impone di raccontare l’origine del soprannome (mio e più che provvisorio) Arò, dai ‘na stangà!, che con evidenza traduciamo in italiano Arona, dai una stangata. In sintesi, là dietro il duo Podestà/Baroni organizzava estenuanti e appassionanti tornei a coppie di boccette all’italiana. Dato che, nonostante fossi il più giovane, vantavo parentele illustri – mio zio Guerrino Taverna era stato campione regionale nella specialità -, qualcuno pensò (male) di mettermi in coppia con Ludovico Bellone che di biliardo era fine intenditore. Capito subito, dopo un paio di minuti, che quello non sarebbe mai stato il mio sport e dato che si proponeva sul panno verde un’ingarbugliata situazione da sparigliare, Ludovico si portò all’altro capo del biliardo e mi indicò un groviglio di boccette che dovevo per così dire togliere di mezzo. E disse proprio, indicando col dito il punto in cui picchiare: Arò, dai ‘na stangà. Tanta apertura di credito irrobustì magicamente il mio polso e lanciai la boccetta con la stessa forza di un lanciatore di martello. L’effetto fu devastante: la maggior parte delle boccette schizzò fuori dal panno, una sfiorò la zucca pelata di Podestà e un’altra bucò alla lettera il muro adiacente. Poi venni sommerso da un’onda di risate e di prese per il culo. Subito dopo espulso dalla gara. E il soprannome per un po’ attecchì, anche se dismesso da lì a qualche mese perché non puoi salutare per tutta la vita uno per strada, apostrofandolo con Ciao, Arò dai ‘na stangà!
Nel novembre del ’66 si visse al Perù, nel rione Pista e in tante altre zone d’Italia una serata particolare. Era di sabato, pioveva che Dio la mandava e i peruviani presenti ciondolavano annoiati, un po’ fuori e un po’ dentro il bar. Le ragazze non uscivano, né in bici né a piedi, e la luce elettrica andava e veniva. Al mio lato oscuro, per quanto imberbe, la cosa in sé non dispiaceva.
A un certo punto, rimedio contro la noia, qualcuno propose un bel torneo di Mercante in Fiera, usando il panno verde del biliardo come tavolo da gioco. Quasi tutti abboccarono, ma io, terribile impaziente sin dalla più tenera età, passai di mano e mi assegnai il ruolo di spettatore per nulla coinvolto. Ancora oggi non sopporto robe come Monopoli, Bingo e menate varie. Se volete farmi un dispetto, sapete come fare. In ogni caso il torneo partì e chi giocava sembrava trarne il massimo godimento. Io, verso mezzanotte, un po’ contrariato, alzai le tende e salutai la company. Serata proprio del piffero, ma ci sono anche quelle. Sulla porta del bar mi prese un coccolone: non avevo mai visto piovere con quella violenza e, ciliegina su una torta indigesta, mi trovavo senza ombrello e la famiglia Arona aveva appena traslocato dalla vicinissima via Stephenson al quasi irraggiungibile spalto Marengo. Chiesi un parapioggia in prestito a Teresio, non sognandomi neppure di scroccare un passaggio a qualcuno (anche perché non se ne contavano quasi di persone provviste di automobile e comunque tutti ci stavano dando dentro con il Mercante) e rassegnandomi a una lunga scarpinata notturna sotto il diluvio universale. Così, con un ombrellino di scarsa copertura, iniziai una camminata rasente muro da piazza Mentana, corso IV Novembre fino all’incrocio con la circonvallazione e l’inizio di spalto Gamondio. Qui, lo ricordo bene, fui costretto a fermarmi all’altezza del bar d’angolo (che esiste ancora) perché la furia dell’acqua non concedeva ad alcuno di camminare pur se provvisto di ombrello. Stetti al magro riparo di una specie di tettoia ad attendere il diminuire dell’intensità, il che non avvenne, e allora, dopo avere contemplato per parecchi minuti uno spettacolo spettrale e apocalittico, attraversai lo stradone in fretta e furia, infilandomi in spalto Gamondio e poi ancora un bel po’ di passi fino alla fine di spalto Marengo. Quando entrai in casa ero zuppo come un Pavesino dimenticato troppo a lungo nel latte caldo.
La mattina dopo apprendemmo dalla TV della tragica alluvione di Firenze. Per quel che avevo vissuto durante la notte ne ricavavo l’impressione che chi di dovere avesse miracolato Alessandria, rimandando l’appuntamento a chissà quando – poi purtroppo abbiamo saputo quando.
Mi presentai al Perù nel tardo pomeriggio. Qui venni a sapere che la notte si era dimostrata pepata anche su altri fronti, non solo Mercante in Fiera e scampata alluvione. Decine di macchine posteggiate nel quartiere Pista, nelle vie limitrofe a piazza Mentana, avevano avuto pneumatici squarciati da qualche banda di idioti provvisti di attrezzi alla bisogna. Gino Podestà mi guardò con quell’aria furba e ironica che si ritrovava e mi informò: «È venuta la polizia verso mezzogiorno a proposito delle gomme bucate. Cercavano tre tipi soprannominati lo Smilzo, Tamba e Arò. Ho risposto che siete stati qui a giocare sino alle tre a Mercante in Fiera e poi ho dato un passaggio a tutti data la pioggia che cadeva. Mi raccomando, allo Smilzo e a Giovanni ho già detto di confermare questa versione.»
Mi sentii strano per qualche secondo e poi: «Ma, Gino, non penserai che c’entri qualcuno di noi?»
Gino era uomo di poche e sagge parole: «Quel che penso io non conta nulla. Il dato di fatto, non hanno neppure i vostri nomi, ma i soprannomi, e mi par certo che si tratta di una soffiata di infimo livello, qualcuno che non vi può vedere, magari una compagnia di qualche altro bar. Che mi dici del bar Aurora?»
Non potevo dirne nulla. Non ne sapevo proprio nulla. Ma in quell’occasione imparai che ad Alessandria vigeva in quel periodo il solido principio del carisma, un po’ malavitoso, del soprannome, lo stradinom.
Arò, proprio non mi piaceva e andava cambiato al più presto. Ma poi infilare me in una ipotetica terna di squarciatori di gomme? In quella genìa di imbecilli frustrati che impazzano ancora oggi, più di ieri, e che sono i dementi vandali notturni? Mi incazzai parecchio nei giorni successivi. Ma seppi anche calmarmi perché poi alla fine nessun poliziotto venne mai a cercarmi a casa.
Era Alessandria, un suo frammento. Era il 1966.