Nel Superstite n° 138 accennavo alla moda molto locale degli “Stradinom”, i soprannomi talmente azzeccati che, affibbiati di solito a personaggi mai banali, ti s’incollano sulla persona e non ti abbandonano mai, sino e oltre alla morte. E’ giunto il momento, dopo dieci anni, di rispolverare dall’oblio l’autentica genesi storica del soprannome “Il Maratoneta”, guadagnato sul campo dall’impagabile amico Giorgio Bona, scrittore alessandrino di rango, autore di quelli che sul mio taccuino personale sono degni di essere definiti capolavori, Erano voci e Sangue di noi tutti. Va da sé che dopo 10 anni il pezzo viene rivisitato e in qualche modo aggiornato. Alegher!
Nei microcosmi (il quartiere, le cittadine di provincia, i paesi) i soprannomi pesano più dei dati anagrafici. In Alessandria hanno furoreggiato negli anni lo Smilzo, il Biondo, l’Ammuffito, il Conte, Tamba, Sgnufla, Cipilati, il Caimano, il Sarto, Putrella, Pagnufli, Baleta, Manina, Tre Ossa, l’Uomo dalle Due Teste, il Sosia e il Maratoneta. Il soprannome in provincia è peggio di una leggenda metropolitana: non te ne stacchi più. A volte ha origini misteriose, in altri casi se la gioca in caricatura oppure esibisce una valenza (ironica) con un mestiere o un hobby di riferimento (il “sarto” faceva veramente il sarto, anche se nessuno indossò mai un vestito da lui prodotto).
Il Maratoneta si guadagnò il soprannome, che regge tuttora a imperituro ammonimento, in una nottata (per lui non così memorabile) degli anni Settanta. Era di sabato e l’uomo, allora poco più che ventenne e promessa italiana della maratona, guadagnò l’ingresso di un bar allora molto frequentato dai presenzialisti di professione, “i Pierini”, luogo di somme libagioni che in realtà si chiamava in altro modo ed è uno dei pochi casi in città di bar con soprannome (un altro era il Cesso, ma non posso dirvi dove sta perché sta ancora…). Intenzione del gagliardo sportivo era quella di bersi un caffè, salutare qualcuno e ritirarsi presto visto che l’indomani mattina avrebbe dovuto cimentarsi in una gara, una di quelle agoni che – se ben giocate – ti possono cambiare la vita. Che so, passare dal divertimento al professionismo. Invece, indugiando là dentro oltre il dovuto, incontrò la sua nemesi in due cape toste dell’epoca, più o meno della sua età, ovviamente munite di soprannome: il Conte e il Sosia. Il primo, come epiteto, è molto ben distribuito nella penisola, vale a dire che esiste un conte in ogni dove (ad Alessandria, con mio particolare sconcerto, ne esistono almeno tre). Il secondo no, è un nomignolo raro e personalmente non ho mai conosciuto altri con tale appellativo (mentre invece di smilzi e di biondi ne trovate caterve), ma nel caso in questione sussisteva un concretissimo humus allusivo: il Sosia amava gabbare il prossimo spacciandosi per il suo inesistente fratello gemello. Così, per ascoltare i commenti del volgo al suo indirizzo. In questa sua strana fissazione – che meriterebbe lei sola un opportuno noir metafisico – s’impegnò a lungo. Con pochi e opportuni ritocchi (lenti a contatto al posto degli occhiali, un leggero cambiamento del tono di voce), il Sosia riusciva a circuire qualche ingenua vittima che non lo conosceva e iniziava a sparlare di sé stesso con frasi tipo “ha saputo che ha combinato quel coglione di mio fratello?”. La vittima spesso accondiscendeva per liberarsi dello scocciatore. E il Sosia, per vie misteriose ai più, ci godeva un mondo a cogliere il disprezzo popolare nei suoi confronti, anche se lui in quei momenti era un altro.
Ma torniamo al Maratoneta. Trascinato dal Conte e dal Sosia in una discussione post-caffè sui massimi sistemi dell’epoca (il terrorismo, le radio private, la gnocca e le divise dei Village People, che sono più o meno quelli oggi), l’uomo consumò l’ora opportuna per il rientro e l’adeguato riposo in un inappropriato turbinìo di parole a perdere. A pochi minuti dalla mezzanotte, se ne rese conto e sbottò nella classicissima: “Mi dispiace, devo andare, domani mattina ho una gara”. Il Conte e il Sosia, vecchi professionisti della perversione, si guardarono per un secondo negli occhi e poi lanciarono con finta trascuratezza: “Uno spaghettino aglio e olio? Non ti è venuta fame?”
“No, no, accidenti. Il Mister mi aspetta al campo alle dieci.”
“Dai, mezz’ora e poi tutti a nanna”, incalzò il Sosia. “Magari telefoniamo anche a mio fratello.”
“Meglio di no”, sottolineò il Conte. “Tuo fratello è uno che la tira veramente tardi.
“Okay, allora lo lasciamo dov’è. Andiamo?”
Il Maratoneta, come tutte le persone educate, non se la sentiva di mandare a stendere quelle due simpatiche canaglie. Il duo, divenuto terzetto, abbandonò i Pierini e raggiunse la casa del Sosia, un vecchio condominio nel centro storico. Una volta all’interno, sul tavolo della vasta cucina si materializzarono in pochi secondi un paio di bottiglie di dolcetto d’Ovada. Sul gas bolliva l’acqua in pentola. Poi spaghetti Barilla e tanto di quell’aglio che sembrava di essere nel laboratorio di Van Helsing. Il Maratoneta la vedeva male. Però l’importante era non eccedere: un giro, giusto un assaggio, di spaghetti e mezzo bicchiere di vino.
Finì peggio. Alle due e tre quarti, con quattro bottiglie di dolcetto e due di grignolino che giacevano svuotate sul tavolo (bibendum inevitabile data la mano pesante sfoggiata dal Sosia nell’elargire il peperoncino), il Conte svelò al Maratoneta che l’altro amico non era l’uomo che tutti pensavamo essere, ma bensì il fratello gemello che ne aveva preso il posto. Il vero Sosia era morto da tempo, ucciso dal ginecologo di famiglia. Il Maratoneta, in piena confusione e un po’ ciucco, accettò il conclusivo bicchiere della staffa, ovvero due generosi calici di Brachetto d’Acqui, l’ideale per smaltire. Poi vennero il buio e l’amnesia.
L’indomani mattina l’uomo, eroicamente, si presentò al campo. Caracollava, puzzava d’aglio e di tannini e blaterava che in giro c’erano gli Ultracorpi, gente uguale a noi che voleva prendere il nostro posto. Il Mister lo guardò con scoramento e lo mandò via. Per sempre. Fu la fine della sua carriera. Però ci guadagnò un soprannome immortale. Da allora Giorgio Bona è il Maratoneta.
Il racconto qui potrebbe finire, se non fosse che in me cova il sospetto che quell’esperienza notturna, banale ma in qualche modo formativa, lo abbia così segnato nel profondo da farlo diventare il cantore letterario di quei piemontesi, così difficili da capire, campioni di un linguaggio bastardo – un italiano sempre “assalito” da frasi in dialetto – e di un comportamento altrettanto irrazionale e non allineato, al punto di fare della schizofrenia una professione allegramente ostentata. Chi ha letto i suoi bellissimi libri ha potuto trovare, spesso, traccia chissà quanto consapevole di quei due pazzi con soprannome che gli impedirono trent’anni fa di diventare un inutile sportivo.