L’Europa dei diritti: è davvero l’Islam la causa dei conflitti?

Prati Giovannidi Giovanni Prati

L’attacco terroristico al giornale satirico parigino Charlie Hebdo è un chiaro attacco diretto alla libertà di stampa e d’espressione, pilastri della società e della cultura europea. Su questo l’opinione pubblica e tutti gli analisti concordano. Sulle cause, sulle conseguenze e sulle politiche d’adottare, invece, si è detto tutto e il contrario di tutto inficiando negativamente il dibattito pubblico, ora attanagliato da una paura sclerotica, ora sobillato da nuove ondate di Islamofobia.

Certo un attacco così grave isolerà ulteriormente la comunità islamica, vanificando i pochi e difficili passi verso l’integrazione che i paesi Europei hanno fatto dal 2001 in avanti, esacerbando un conflitto che nessuno può ignorare. Però le destre populiste e xenofobe parlano di una vera e propria guerra con l’Islam, che conta circa un miliardo di fedeli, puntando il dito contro i progressisti che, colpevoli di eccessivo buonismo, non si rendono conto che la guerra sia in atto.

Ponendomi con cautela tra le file dei progressisti, posso asserire che un conflitto, e non guerra, esiste. Ma non è tra noi e l’Islam. L’Islam non è il nemico. L’Islam radicale in Europa è un involucro sotto la cui egida si svolgono i conflitti di questo inizio di secolo.

Con la fine delle ideologie, i conflitti sociali, sotto forma di conflitti di classe, sono andati diminuendo sia per la fine della carica propulsiva dell’ideologia comunista sia per i miracoli economici del neoliberismo. Però i conflitti sociali, in tutto il mondo, non sono terminati. Solamente dal piano socio-economico si sono trasferiti a quello etnico-religioso. La causa primaria, però, rimane di carattere economico.

Questa situazione può essere compresa analizzando il contesto europeo in repentinoIslamici preghiera cambiamento. In Italia la tendenza è ancora limitata, ma le periferie delle grandi città europee, Parigi, Londra, Bruxelles, Stoccolma, sono abitate in prevalenza da comunità islamiche. Il peso relativo di queste comunità è in continuo aumento, con effetti culturali e sociali visibili nel futuro prossimo. Subentra quindi il discorso economico. La crisi globale scaturita nel 2008, una crisi del sistema capitalista e neoliberale, ha scaricato i costi dell’aggiustamento dal centro verso le periferie che si sono ritrovate più povere, con tassi di disoccupazione elevati, senza prospettive e senza politiche di welfare. In una situazione del genere è facile scorgere una potenzialità di conflitto disastroso, che minerebbe le fondamenta dell’Europa come terra di diritti.

L’assenza di politiche integrative, poi, ha peggiorato lo status delle comunità islamiche, che, in crisi d’identità e vessate dalla crisi, hanno trovato nell’Islam un senso identitario forte in contrapposizione ai valori europei da cui si sentono esclusi. L’Islam radicale acquisisce un senso di liberazione, di resistenza, d’identità che esercita influenza soprattutto sui giovani musulmani di seconda generazione, che si sentono esuli in un’Europa che non è anche la loro. Per questo motivo ottiene proseliti. Però essi ignorano che i loro padri sono arrivati in Europa proprio per scappare da quell’Islam radicale per cui ora combattono.

Ovviamente è nostro compito combattere il terrorismo in tutte le sue forme. Le cellule terroristiche vanno sgominate con uno sforzo congiunto di tutti i paesi e di tutte le forze politiche. Ma combatterlo alla radice o prevenirlo è ancora meglio. L’Europa deve attuare politiche integrative serie e responsabili, che integrino e non assimilino, che rendano le comunità islamiche pienamente europee con tutti gli importanti valori che la nostra cultura comporta e che rappresentano la nostra storia e il nostro futuro. I pieni diritti e le libertà (come quella di pregare senza discriminazioni che già la Convenzione Europea sancisce) sono le uniche armi con cui combattere e non è un caso che l’attacco a Charlie Hebdo sia proprio un attacco al diritto di espressione.

In secondo luogo, l’Europa deve combattere la crisi economica senza scaricare le perdite sulle periferie, senza dare adito alle tensioni sociali che solo la distribuzione della ricchezza e la crescita economica possono eliminare.

Infine, l’Europa deve ragionare su stessa. Secondo diverse statistiche, tra 50 anni gli europei saranno il 4% della popolazione mondiale. Le comunità arabo-islamiche, ma in generale l’immigrazione, potrebbe essere l’unico fenomeno in grado di salvaguardare il nostro peso politico ed economico in un mondo sempre meno eurocentrico.

Contemporaneamente, anche la comunità islamica deve agire e reagire. Favorendo l’integrazione, accettando i valori universali che le nostre Costituzioni garantiscono, amalgamandosi maggiormente nel tessuto sociale e politico europeo e isolando chi commette atti di terrorismo o, in generale, i predicatori fondamentalisti.

Ad ogni modo, nessuno nega il conflitto. Ma l’Islam è una variabile, e gli aspetti radicali di questa religione hanno una rara attrattività che ha saputo dare voce al disagio sociale dalle cause profonde che non riusciamo o non vogliamo guardare, presi dalla necessità di dover trovare sempre le ragioni dei nostri problemi nell’Altro.

L’Europa sta cambiando. Cosa fare delle comunità islamiche? La guerra al terrore si trasformerà in guerra all’Islam, esasperando ulteriormente i problemi delle comunità o faremo progressi verso una reale integrazione che rafforzerà l’Europa? L’errore più grave che possiamo fare adesso è essere presi dal panico e accettare, in nome di una maggiore sicurezza, la restrizione di diritti e libertà. Perché allora l’Europa che abbiamo sognato morirebbe.