Chiude l’Alexandria senza fare rumore

Penna nuovadi Renzo Penna

Da tempo si parla, ma molto genericamente, del “DECLINO” a proposito della situazione che attraversa la città di Alessandria. Grande parte di questa attenzione ultimamente è indirizzata ai guai dell’Amministrazione Comunale e al colpevole “dissesto” del Comune. Anche qui, però, superficialmente e con una lamentosa attenzione rivolta in prevalenza agli effetti, alle difficoltà del presente al posto di una severa indagine sulle cause e le responsabilità che hanno determinato le carenze e i disservizi di oggi.

Bisognerebbe, invece, seriamente iniziare a ragionare e studiare le cause delle crisi strutturali che hanno riguardato negli ultimi decenni e tutt’ora riguardano quel che resta dei diversi settori delle attività economiche della città. Dove, in quali direzioni, verso quali settori e opere è stato orientato e favorito dalle classi dirigenti il modello di sviluppo di Alessandria. A scapito di quali altri e con quali risultati.

Penso, ad esempio, che poca attenzione sia stata dedicata alla crisi dell’INDUSTRIA alessandrina, alle ragioni del crollo e del sostanziale azzeramento delle “famiglie imprenditoriali” locali. Quasi fosse un evento naturale non arrestabile. Il calzaturificio Alexandria che chiude e cessa l’attività senza destare un particolare clamore ben rappresenta questa storia e ne è, purtroppo, solo uno degli ultimi esempi.

A questo proposito, un paio di anni fa, la Camera del Lavoro di Alessandria ha pubblicato un interessante libro (“Il Lavoro perduto – Alessandria: parlano le lavoratrici e i lavoratori delle fabbriche chiuse – 1970-1990″ a cura di Paola Giordano e Grazia Ivaldi) che, attraverso le voci delle lavoratrici, dei lavoratori e dei delegati sindacali di fabbrica, ha indagato le cause della irreversibile crisi di alcune delle principali aziende del settore Argentiero (Cesa 1882 e Ricci), Metalmeccanico (Baratta, Fonderia Bolognini, Imes, Magneti Marelli e Officine Panelli), Pellettiero (Garbieri e Lico Centurini) e Calzaturiero (Russo), accadute negli ultimi decenni del secolo scorso.

Le ragioni dei fallimenti e delle chiusure tra loro in parte diverse, ma con molti tratti inCalzaturificio Alexandria comune: carenze nelle direzioni aziendali, produzioni con basso valore aggiunto e/o poco competitive, scarsa innovazione tecnologica dei prodotti, obsolescenza organizzativa, difficoltà finanziarie dovute a bassa capitalizzazione, conseguenze del ridimensionamento e della ristrutturazione del comparto da cui dipendevano, come l’auto. E, in generale, una ridotta propensione dell’imprenditoria locale a reagire alla crisi e al declino, ricercando nuove strade e puntando con maggiore decisione ed inventiva su formazione, ricerca e innovazione dei prodotti e delle produzioni. Per fare solo l’esempio di una realtà particolare ma specifica di Alessandria, quella delle fabbriche di argenteria che ho conosciuto direttamente per averci lavorato, un settore che alla fine degli anni ’70 contava ancora oltre 500 dipendenti e un centinaio di lavoranti a domicilio, che nel volgere di pochi anni si è dissolto. A causa, certo, della crisi del comparto, per gli aumentati costi della materia prima e a un diverso orientamento nei consumi, ma anche per la mancanza di un coordinamento, di un progetto comune, in grado di superare una poco produttiva rivalità tra aziende, che ne ha accelerato la fine.

Come spesso capita in questa città il volume promosso dalla Cgil, dopo la presentazione ufficiale, non ha suscitato, come avrebbe meritato, particolare interesse e attenzione. Risultando una delle tante occasioni perse per riflettere, indagare sulle cause, le ragioni di fondo con l’obiettivo di ricercare correttivi e prospettare soluzioni. Riporto di seguito ciò che una delle due autrici (Grazia Ivaldi) ha scritto – come senso e significato del libro – nell’ultima di copertina.

“In questi anni ha trovato ampio sostegno la convinzione che il lavoro sia espressione di un’epoca passata, che l’industria potesse essere facilmente sostituita dal terziario, che il mercato possedesse poteri taumaturgici, nuovo totem di una più facile ricchezza e di illimitate potenzialità espansive dell’individuo. Gli esiti di questa ideologia sono evidenti nella accresciuta disuguaglianza, nella frammentazione, nella precarietà dei rapporti di lavoro e nel progressivo assottigliarsi del reddito. Tale visione modernistica non poteva non contemplare un attacco al sindacato, considerato ostacolo al rinnovamento, propugnatore di idee vecchie e superate, non all’altezza del grande disegno di ammodernamento della società. Ne è conseguito il costante tentativo di ridurne il peso anche e soprattutto in quanto soggetto portatore di istanze collettive e quindi in forte contrasto con il processo di individualizzazione, cardine della nuova modernità che ha cambiato la scala dei valori e capovolto il linguaggio mutandone radicalmente il significato.”