di Bruno Soro
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“Quando un furbacchione indica con il dito un asino che vola, i gonzi guardano il cielo”.
Parafrasi di un proverbio popolare di incerta origine.
Due articoli in questo inizio d’anno meritano un commento. Su Il Sole 24 Ore di domenica 4 gennaio, J. Bradford DeLong, uno dei più quotati economisti dell’università californiana di Berkeley, spiega con grande chiarezza perché, per uscire dalla lunga crisi innescata dalla bolla speculativa dei mutui underwater (garantiti da titoli inesigibili), servirebbe “il coraggio di un nuovo Roosevelt”. Quel Presidente degli Stati Uniti che, “sperimentando tutte le strategie possibili, e quindi ampliando quelle di maggiore successo, alla fine fu in grado di imprimere una svolta all’economia”. Il secondo articolo è del professor Mario Deaglio, profondo conoscitore dell’Economia internazionale, il quale, con dovizia di particolari, illustra su La Stampa di lunedì 5 gennaio, i rischi connessi alla crisi politica di una piccola economia dell’eurozona come la Grecia, la cui evoluzione potrebbe tuttavia far deflagrare la moneta unica sulla quale si regge l’impalcatura dell’Unione Europea.
I due articoli sono tra di loro collegati da un sottile filo rosso che vale la pena di mettere in luce. Sostiene Brad DeLong che alla fine del 2008 “allorché divenne chiaro che l’economia globale era diretta verso una catastrofe, pericolosa almeno quanto quella che aveva dato avvio alla Grande Depressione”, egli fosse speranzoso poiché “si trattava di qualcosa che avevamo già vissuto nei tempi andati”, ragion per cui esisteva già “un modello per mitigare i danni”. Purtroppo “i politici se ne sono dimenticati troppo in fretta”.
Mario Deaglio, dal canto suo, sottolinea invece come i piani alti delle Istituzioni di Bruxelles abbiano “definito «un disastro» l’ipotesi avanzata dalla Cancelliera tedesca di una Grecia fuori dall’Unione”: un’eventualità che avrebbe inimmaginabili «effetti devastanti e contagiosi per gli altri Paesi». “Che cosa succederebbe – si chiede Deaglio – se gli elettori greci (dovessero dare) al nuovo governo il mandato di uscire dall’euro?” Per rispondere a questa domanda egli sostiene che andrebbero innanzitutto valutate separatamente “le conseguenze dirette e quelle indirette”. Fermo restando che, avendo “firmato un trattato internazionale di adesione all’euro che non si può abolire unilateralmente”, e non essendovi alcuna norma dei Trattati che preveda sia l’eventualità dell’uscita che l’espulsione di un Paese dalla moneta unica, la Grecia non può uscire dall’Eurozona. La sola possibilità sarebbe quella di uscire dall’Unione Europea, ma ciò potrebbe avvenire solo con il ricorso ad una procedura che, allo stato attuale, richiederebbe il consenso di tutti i paesi della UE.
Ciò posto, nel caso dell’uscita dall’Unione della Grecia, la più importante conseguenza diretta per il popolo greco sarebbe quella di un ritorno alla vecchia dracma, ma a quale tasso di cambio non è dato sapere. Infatti, quando la Grecia è entrata nell’euro un tasso di cambio c’era e, date le condizioni attuali, non solo è da escludere la possibilità di un ritorno al vecchio cambio, ma quello che i mercati valutari fisserebbero per la nuova dracma potrebbe subire una drastica svalutazione (cosa che peggiorerebbe ulteriormente le già precarie condizioni di vita del popolo greco). Si tratterebbe in ogni caso, sostiene Deaglio, di una moneta “che nascerebbe gracile, scarsamente accettata all’estero perché il nuovo governo greco sarebbe parallelamente costretto a non ripagare il debito accumulato dal Paese e/o gli interessi relativi”. In altre parole, una prospettiva che si configura come «una luce in fondo al baratro», per certi aspetti simile a quella già sperimentata dall’Argentina, ma senza le risorse di quel paese e per di più con una economia fortemente dipendente dall’estero.
Due aspetti, quello del tasso di cambio e della “ristrutturazione del debito” (che significa in pratica scaricare sui creditori esteri una parte del debito pubblico accumulato dalla nazione) del tutto sottaciuti dai soloni nostrani che propugnano un’uscita dell’Italia dall’euro.
La responsabilità della cecità della politica, sia nell’aver troppo in fretta dimenticato come si è usciti dalla Grande Depressione (avvenuta tra l’altro con la separazione delle banche di credito dalle banche d’affari, una norma poi recepita in Italia dalla “legge bancaria del 1936”, la stessa che ha regolato il sistema bancario italiano fino al 1993), sia nella sottovalutazione dei rischi di una implosione della moneta unica è enorme. Fa bene quindi il professor Deaglio a rammentare che “poco più di un centinaio di anni fa, al momento dell’invasione del Belgio”, un altro Cancelliere tedesco ebbe a sostenere che i Trattati altro non sono che «pezzi di carta». Si è visto poi con quali conseguenze. Nella sua superficialità, è però altrettanto pericolosa l’affermazione (riportata su La Stampa di domenica 4 gennaio), attribuita da un settimanale tedesco “ad un importante esperto di politiche monetarie”, secondo la quale “qualche giurista creativo” potrebbe risolvere facilmente il nodo degli ostacoli formali che impediscono la cacciata della Grecia dall’euro nel caso di una vittoria della sinistra nelle prossime elezioni in quel paese. La storia del passaggio dalla Comunità economica europea (CEE) all’Unione Europea sta a testimoniare che non è lecito scherzare sui temi delle valute e del commercio internazionale.
Vale la pena di rammentare che dopo l’implosione nell’agosto del 1971 del sistema monetario internazionale uscito dalla Conferenza degli Accordi di Bretton Woods del 1944, i Paesi della CEE hanno operato più di un tentativo di ripristinare in Europa un sistema di cambi fissi. L’approvazione del Trattato di Maastricht nel 1992, che ha gettato le basi per la creazione della moneta unica, è avvenuta a distanza di vent’anni dal primo (e fallito) tentativo del «serpente monetario», e dopo la presa di coscienza dei limiti del Sistema monetario europeo (lo SME), adottato nel 1979. Quest’ultimo, infatti, è entrato in crisi ma, a differenza del primo, non è imploso dopo la fuoriuscita della Gran Bretagna e dell’Italia, colpite dagli attacchi speculativi sulle rispettive monete nel 1992. In quest’ottica, l’adozione nel 1999 della moneta unica sancisce la volontà dell’Unione Europea di dar vita al suo interno ad un sistema di cambi irrevocabilmente fissi. Va detto, peraltro, che questo sistema porta con sé vantaggi per alcuni Paesi e svantaggi per altri e necessita quindi di un qualche meccanismo di compensazione simile a quello già previsto da John Maynard Keynes nel suo primo progetto di “unione monetaria internazionale” del novembre del 1941, ma del tutto assente nella stesura dei Trattati istitutivi dell’euro.
Nelle sue “Note conclusive sulla filosofia sociale alla quale la Teoria Generale potrebbe condurre”, lo stesso Keynes scriverà: “La guerra ha parecchie cause. Dittatori e simili cui la guerra offre, almeno come aspettativa, una piacevole eccitazione, trovano facile operare sulla bellicosità naturale dei loro popoli. Ma al di sopra di questo, a facilitare il loro compito e ad alimentare la fiamma popolare, vi sono le cause economiche della guerra, vale a dire la pressione della popolazione e la lotta per la conquista dei mercati in concorrenza. A questo secondo fattore, che ha probabilmente rappresentato una parte principale nel diciannovesimo secolo, e potrebbe ancora rappresentarla, si riferisce in particolar modo questa riflessione”. (1)
Dio non voglia che ancora una volta si avveri la profezia dello stesso Keynes sulla cecità dei politici illustrata in “Le conseguenze economiche della pace” (riedito recentemente nel 2007 da Adelphi, Milano) quando, tornato in Inghilterra dopo avere abbandonato per dissenso politico i lavori della Conferenza di Pace di Parigi del 1919, ebbe a lanciare il monito che, “Se miriamo deliberatamente a impoverire l’Europa centrale, la vendetta, oso predire, non si farà attendere”. L’impoverimento riguardava in quel caso il popolo tedesco uscito sconfitto dalla Prima Guerra Mondiale, ma che oggi potrebbe riguardare quello dei popoli dell’area mediterranea a seguito dell’ostinazione tedesca nel perseguire le fallimentari politiche dell’austerità. Indicando ai gonzi un asino che vola, comici e politici furbacchioni stanno inconsapevolmente scherzando con il fuoco.
(1) J.M. Keynes, “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta”, UTET, Torino, pag. 525-26.