Il film “The tracker” (2002 – regia di Rolf De Heer) è ambientato in Australia.
Un aborigeno guida tre uomini bianchi all’inseguimento di un fuggitivo, anch’egli aborigeno, accusato di aver violentato una donna bianca.
Il più giovane dei tre bianchi crede che la guida voglia trascinarli in una trappola: “Siamo davvero sicuri che stai seguendo delle tracce? Io non vedo nulla…” dice con rabbia scendendo da cavallo.
“Guarda…” risponde la guida “… questa pietra è stata spostata…”
“Ci sono milioni di pietre qui… ci stai prendendo in giro!”
Dopo un breve silenzio, la guida si abbassa: “Vedi?… questa pietra prima era qui… le è stato dato un calcio… e sono passate circa due ore… il terreno è ancora umido.”
Il giovane bianco resta in silenzio.
“Non occorrono grandi segni per chi conosce i segni.”
“Scusa…” dice il giovane risalendo a cavallo.
Conoscere i segni.
Una pratica antica che si va perdendo; a fronte di un affinamento della tecnologia della ricerca, l’uomo vede evaporare la capacità innata di discernere il nero dal bianco.
E non si accorge del contenitore che facilmente si svuota poiché è intento a riempire faticosamente l’altro contenitore.
Conosco un medico a cui puoi raccontare qualsiasi cosa.
Dopo un rapido ragionamento ti guarda, abbozza il sorriso di chi ha trovato il tesoro alle sorgenti dell’arcobaleno e ti prescrive due visite specialistiche, analisi del sangue, radiografie, tac, risonanza magnetica.
Dopo sei mesi ritorni nel suo studio con un plico sottobraccio.
Costui apre il faldone, guarda in controluce le lastre, esamina attentamente gli esiti, annuisce con la testa, ogni tanto la scuote con un tempo lento.
Nel frattempo la tua ansia cresce accresciuta pure dal silenzio spezzato solamente da alcuni sospiri del medico.
Dopo pochi secondi che appaiono eternità giunge il responso.
“Non saprei…” e si spegne il sorriso abbozzato come ad un bambino a cui è caduto il gelato, in mano solo lo stecchino.
Conosco un medico che non conosce i segni.
E forse più d’uno.