Sull’altra sponda del Mediterraneo (3)
“Ai tempi in cui Muhammad era poco più che un infante, gli abitanti della Penisola Arabica si dividevano tra chi abitava nei centri urbani e chi conduceva l’antica vita nomade per le numerose alture e distese desertiche che quella terra offriva. La distinzione non era però poi così netta: gli abitanti delle città erano nient’altro che nomadi che avevano deciso di abbandonarsi alle comodità della vita urbana, al soddisfacimento meno difficoltoso di bisogni sempre crescenti, ma mai si erano dimenticati del loro retaggio beduino e dei benefici che quello stile di vita comportava. E così mandavano i figli presso le famiglie nomadi, nell’età in cui avevano cambiato tutti i denti da latte, in modo da essere allevati e plasmati dalle aridità del deserto.
La vita nomade custodiva un arcano benessere, che si svelava solo a chi effettivamente la conduceva. I venti sferzanti rinsaldavano e scolpivano l’animo come lo scultore sul marmo nudo e grezzo. Un giorno sarebbe diventato meno corruttibile dal denaro, dal potere e dai piaceri mondani di cui la città disponeva e tentava pedissequamente. La solitudine dell’uomo in confronto alla vastità delle dune insegnava all’uomo a bastare a se stesso, la difficoltà di trovare la semplicità.
Il nomade, infatti, aveva bisogni limitati e mezzi ancora più ristretti per soddisfarli, ma non era sottomesso a nessun vincolo di spazio e di tempo. L’uomo di città, invece, era schiavo delle freccette dell’orologio che si inseguivano forsennate, dei ritmi diabolici e dalle necessità di fare qualcosa di profittevole. E la sua vita era claustrofobica, delimitata in piccoli spazi, tra le mura di cinta. L’uomo del deserto è padrone dello spazio e del tempo: poiché è levato il campo, lo ieri non esiste più, e finchè non troverà un’altra landa generosa e riparata su cui poter stabilire le proprie tende il domani non esiste. E nel deserto non ha limiti al proprio movimento per tutta la rosa dei venti. Ha scelto. Ha scelto il presente, la vita, la forza e l’animo, di dominare il tempo finchè il tempo stesso, con un colpo di frusta cui tutti tocca, non avrà deciso di portarlo da qualche altra parte. In cambio di questi privilegi ha rinunciato alla ricchezza, alla comodità, alla gloria, al potere. E fino a quando un beduino sarà vivo su questa terra, girovago per il deserto, ci sarà un uomo che sorride alla morte godendo della vita, vincendo la tirannia della pelle che si raggrinzisce e delle leggi dell’uomo, ispirate a quelle di Dio, ma sempre così umane e così imperfette.”
Da secoli l’immaginario collettivo occidentale si nutre della figura del beduino, dei cammelli, delle oasi e del grande Sahara facendo riferimento agli Arabi. Certo, fa sorridere pensare a un mondo Arabo ancora così e, infatti, questa è una realtà che non esiste quasi più.
Eppure, mi sono trovato in un luogo che contraddice quanto appena detto, un luogo cristallizzato che mi ha riportato per un week end all’antico Nord Africa dei Berberi e dei Nomadi, delle carovane di cammelli attraverso alle dune, e che ha ispirato la lunga considerazione fatta nel paragrafo precedente.
Sto parlando di Merzouga, città marocchina del Sud-Est al confine con l’Algeria, cui mi sono recato in occasione della festa di Al Adha. Qui l’immaginario collettivo occidentale si alimenta senza sosta, abbracciando e sommergendo i viaggiatori che qui arrivano.
Certo, oltre alle tante attrazioni preparate ad hoc per i turisti – quad, tour coi cammelli, motocross, trekking, dune con fuoristrada – c’è una realtà ben diversa.
Innanzitutto, gli abitanti non sono Arabi (ci tengono orgogliosamente a precisarlo), ma Berberi, anzi, dizione a loro più gradita, Amazigh. Non saprei perfettamente dire quanto si sentano marocchini. Alla mia domanda non rispondo, ma ciò che mi dicono è che ciò che tiene uniti loro, gli Arabi e altri beduini è l’Islam, vero catalizzatore di culture tante diverse. La lingua amazigh, poi, è spesso incomprensibile anche ai marocchini di etnia araba, è una lingua autoctona con influssi arabi e subsahariani, sintomo della vita nomade.
Merzouga, la loro terra, è un piccolo villaggio di case basse, fatte ancora con paglia e qualche sostanza malleabile di cui non ho colto il nome; non ha strade asfaltate né nessun tipo di servizio cui noi siamo abituati. La popolazione non è quantificabile, perché non si contano le persone, ma le famiglie. Il nostro albergatore ci ha detto che le famiglie fisse sono 80, ma salgono a 300 quando i nomadi ritornano perché non trovano niente nel deserto. Il villaggio è abbracciato da una distesa di dune rosse in cui l’occhio si perde. Non c’è nient’altro. A ovest di Merzouga, all’orizzonte, si possono intravvedere le creste del Middle Atlas, mentre la città più vicina, la vivace Rissani, dista 40 kilometri.
Al di là del deserto, verso il confine con l’ostile Algeria, sparute casupole e tende si intravvedono, distantissime l’una dall’altra. Ogni casa è abitata da una famiglia, il cui concetto è molto diverso dal nostro. Le famiglie sono molto allargate e riconoscono un capo famiglia, cui spettano le decisioni su tutto. La giornata è scandita sempre da faticoso lavoro, spesso manuale. Cercare legna, tagliarla, accorparla, pulire casa, comprare il cibo. Però non fatevi trarre in inganno, non tutto rimanda ancora a secoli fa: i cammelli, ad esempio, non li usano per lo spostamento, ma li allevano per venderli, mentre parcheggiate al di fuori delle tende hanno dei fuoristrada. Non ho mai colto, a dire la verità, la connessione tra vita rudimentale e fuoristrada, simbolo del comfort, ma di certo non tocca a me giudicare.
Inoltre, uno degli aspetti più importanti della cultura amazigh è l’arte. In una cooperativa situata in mezzo ad una piccola e rigogliosa oasi ho potuto toccare con mano la loro abilità nell’intarsio, nel tessere tappeti e nel lavorare il legno. Un’opera minuziosa e complicata che tuttavia mantiene vivo un patrimonio antico di secoli.
Capire e conoscere una cultura così particolare come quella amazigh in tre giorni è impossibile. Vero è che questa realtà a poco a poco sta scemando. Le vecchie generazioni non sono mai andate oltre Rissani, ma le nuove generazioni hanno orizzonti più vasti e si lasciano sopraffare da stili di vita moderni e consoni. Inoltre Merzouga negli ultimi decenni non offre più quelle risorse che un tempo forniva, e così molte famiglie hanno smesso di condurre una vita nomade. La sopravvivenza della loro identità sarà messa a forte rischio negli anni avvenire. Quel che resta certamente oggi, è un luogo sospeso nel vuoto del tempo, dove la nostra immagine dell’Arabia Felix (nonostante la lontananza geografica) vive, respira e si conserva protetta dalle alte dune rosse del Sahara. Ma “fino a quando un beduino sarà vivo su questa terra, girovago per il deserto, ci sarà un uomo che sorride alla morte godendo della vita, vincendo la tirannia della pelle che si raggrinzisce e delle leggi dell’uomo, ispirate a quelle di Dio, ma sempre così umane e così imperfette”.