“Renzi è figlio del suo tempo, e non solo ha grandi doti di comunicatore, ma sa interpretare sentimenti diffusi nel Paese: voglia di cambiamento, di rinnovamento delle classi dirigenti, e della politica. Ma attenzione: un grande leader senza alle spalle un grande partito plurale non può andare lontano”. Il senatore Federico Fornaro soppesa le parole, nel corso di una riflessione articolata, che spazia su tutti i grandi temi oggi sul tappeto: dal dibattito rovente sull’articolo 18, e più in generale sul rilancio del mondo del lavoro, alle riforme istituzionali. Fornaro è da sempre, all’interno del Pd alessandrino ma anche piemontese e nazionale, figura incline alla riflessione, all’analisi e alla ricerca di mediazione. Non che, secondo le statistiche, un vero stakanovista, praticamente sempre presente ai lavori in Senato in questo primo anno e mezzo di legislatura: in cima alle classifiche non solo del Pd, ma dell’intero Parlamento.
Non propriamente ‘renziano’, sia sul piano caratteriale che politico, il senatore Fornaro appare comunque consapevole delle qualità del premier, e della sua capacità di dialogare con la ‘pancia’ del Paese, ma ci invita a riflettere sui rischi dell’uomo ‘solo al comando’. Senza peraltro lesinare critiche ai sindacati, e ai corpi intermedi in generale.
Senatore Fornaro, aprendo l’agenda delle riforme attorno all’articolo 18 Renzi ha incendiato la prateria, e sembra aver rinvigorito opposizione interna e sindacati. Uno scontro inevitabile?
Spererei un confronto inevitabile: certamente anche radicale, e con posizioni molto lontane tra loro: ma la politica è fatta di capacità di ascolto, e di mediazione….
Doti che il giovane premier non sembra tenere in gran conto: o è solo tattica comunicativa?
Certamente Renzi ama giocare d’attacco, e sui sindacati ha fatto affermazioni pesanti. Ci andrei cauto con questo disprezzo per i corpi intermedi in generale: il che naturalmente non significa dire che va tutto bene così com’è. Stiamo vivendo una crisi (economica, ma anche di valori) senza precedenti, ed è indubbio che servono risposte rapide, ed efficaci. Tuttavia certe riforme, sia economiche che istituzionali, non puoi farle in pochi giorni. E soprattutto non puoi imporle d’autorità. E poi, se annunci che farai una grande riforma al mese, è facile che non ti riesca di mantenere fede agli impegni, e diventa un boomerang.
Partiamo dal lavoro: davvero oggi il problema degli imprenditori si chiama articolo 18? E, in ogni caso, è possibile partire sempre e solo dalle esigenze degli imprenditori, considerando i lavoratori dipendenti una variabile secondaria?
Sulle intenzioni di Renzi, e dell’esecutivo, rispetto all’articolo 18 manca chiarezza, e bisogna farla. Per chiedere al Parlamento di spogliarsi del suo potere, e di affidarlo al Governo, devono prima spiegare a tutti gli italiani cosa intendono fare, e come intendono riformare il sistema. Perché un conto è dire: introduciamo un nuovo meccanismo, a tutele crescenti ma senza articolo 18, che consente nuove assunzioni, ed è comunque meglio della disoccupazione, e anche della giungla di cocopro, false partite Iva e via dicendo. Ma dopo i primi tre anni cosa succede? Per chi viene confermato l’articolo 18 torna a valere? Questo non è marginale….
Non solo senatore: se anche dovesse valere dopo tre anni, non è che scatterebbe la furbata all’italiana, per cui dopo tre anni si viene sistematicamente licenziati, e avanti un altro? E per i quarantenni, magari pure renziani tra l’altro, che l’articolo 18 ce l’hanno, che succede se cambiano lavoro? Ora addirittura qualcuno parla di eliminarlo tout court, anche per i contratti esistenti…
Concordo: tutti aspetti assolutamente da chiarire. E, soprattutto, l’economia italiana, oggi in difficoltà doppia rispetto ad altre realtà europee, non si rilancia certamente solo così. Inanzitutto serve un nuovo sistema di welfare, a sostegno dei lavoratori. Ora va di moda citare il modello danese, ma là si pagano tasse ancora più alte che da noi, e soprattutto l’evasione/elusione fiscale è minima. Da noi è una voragine, e ancora non si sono individuati meccanismi davvero efficaci per combatterla, questa è la verità.
Su questi temi il Pd potrebbe realmente spaccarsi, e la durata della legislatura essere a rischio?
Sulla durata della legislatura non mi pronuncio: ci sono davvero troppe variabili sul tappeto. Sul Pd le dico questo: pur commettendo in questi anni anche errori, abbiamo saputo avviare una trasformazione autentica, profonda. Siamo passati attraverso diverse fasi, strumenti, e anche leader. Là dove invece, nel centro destra, mi sembrano ancora assolutamente fermi al padre padrone, o al pater familias a voler essere diplomatici. La forza del Pd oggi più che mai è quella di essere un grande partito plurale, capace di dare voce e rappresentanza ad istanze ed esigenze anche diverse del corpo elettorale. Non vedo rischio di spaccature: sempre però che quella pluralità venga rispettata.
Lei dice che il centro destra è rimasto al pater familias, per non dire che sono letteralmente a pezzi, e con un elettorato amareggiato e smarrito. Però che Renzi abbia tratti culturali e comunicativi simili a quelli di Berlusconi mica lo vorrà negare…
In comune hanno la grande qualità di saper interpretare e dare voce al sentire collettivo, alle pulsioni che arrivano dal corpo elettorale: Berlusconi vent’anni fa, Renzi oggi. La differenza, ripeto, credo stia nella solidità del progetto collettivo che c’è dietro il leader: e che è più importante del leader stesso.
E i sindacati? Sembravano finiti nell’angolo: l’attacco frontale di Renzi li spingerà ad una nuova stagione di protagonismo?
I sindacati, ma più in generale i corpi intermedi (quindi partiti, associazioni di categoria, ecc..) devono continuare ad avere un ruolo in questo Paese, in termini di responsabilità e di proposta. Ma devono anche svecchiarsi. Posso essere provocatore? Il Pd è nato da una scommessa: quella di fondere senza paura due partiti (Ds e Margherita) ma anche due culture politiche, e certamente anche altrettanti reti e ruoli sui territori. I sindacati quando sapranno avviare un processo analogo? Ha ancora senso oggi avere la Triplice, o non sarebbe più utile un sindacato unico e forte, da 10 milioni di iscritti?
Economia e lavoro sono centralissimi senatore Fornaro. Ma poi c’è tutto il resto: anche lì, certe finte riforme del centro sinistra come quella delle Province (che è partita con Monti, passando attraverso Letta e poi Renzi) sono imbarazzanti…
Le Province sono un esempio di pessima riforma, che non ho condiviso. La grande occasione, e lo dicevano anche i numeri di una bella analisi di docenti dell’Università Bocconi, sarebbe stata ridurle drasticamente di numero, e naturalmente anche alleggerirle in termini di strutture e sprechi. Non c’è bisogno di essere leghisti per constatare, conti alla mano, che davvero molte Province del sud avevano organici pletorici, auto blu in quantità e quant’altro. Detto ciò: oggi siamo arrivati sin qui, ed è chiaro che ci sono oggi due passaggi fondamentali: 1) l’attuazione della legge Del Rio, che prevede le Province come ente di secondo grado, ma che devono svolgere alcune funzioni fondamentali, per le quali deve avere a disposizione risorse che al momento non hanno. Ho cercato anche, personalmente, di portare avanti la causa di province come quelle piemontesi, che hanno in pancia un numero di funzioni più ampio di quelle di altre regioni, e quindi devono poterle espletare. Nel frattempo, entro il 12 ottobre, si completeranno le elezioni appunto di secondo grado, e le Province avranno un presidente, un consiglio provinciale con un numero ridotto di membri, e un’assemblea dei sindaci. Con naturalmente il problema, per una realtà vasta e articolata come quella alessandrina, di garantire voce e rappresentanza ai territori. Poi arriveremo alla fase 2….
In cosa consiste, e quando ci arriveremo?
L’attuale fase di transizione verrà superata, realisticamente, entro la fine del 2015. A quel punto le Province usciranno dal perimetro costituzionale, e ci sarà la definizione di enti di area vasta, la cui organizzazione dovrebbe essere affidata alle Regioni. Attenzione, anche queste sono operazioni che non si fanno con la bacchetta magica. Basti pensare quante attività di tipo statale hanno oggi un’articolazione per Province: non puoi cambiare tutto dalla sera alla mattina. E bisogna sempre porsi il problema delle risorse, altrimenti le riforme generano paralisi, o caos.
Lei è stato per dieci anni sindaco di un piccolo comune, Castelletto d’Orba: quanto rischiano oggi i mille campanili italiani?
Rischiano l’abbandono, vivono nell’incertezza. Sicuramente il percorso delle Unioni, e della gestione consorziata di funzioni e servizi è ineludibile: ma al tempo stesso non si può procedere con l’accetta, a tavolino. Ci sono comuni collinari o montani con esigenze molto particolari. Mi viene in mente Carrega, che ha pochissimi abitanti, ma un territorio molto vasto. Non si può fare un calderone, insomma.
La riforma del Senato la convince?
Non sono tra quelli che si sono scandalizzati per le elezioni di secondo grado anche in Senato: se ne parlava del resto già nei programmi dell’Ulivo, vent’anni fa. Semmai avrei previsto un elettorato più ampio, come nel modello francese. Così come per l’elezione del Presidente della Repubblica vorrei una partecipazione più ampia, e non solo i 630 deputati, e 100 senatori.
Anche perché, senatore, la logica di elezioni di secondo grado, accompagnata da una nuova legge elettorale che dovesse ridurre ulteriormente il peso delle minoranze dissonanti, ci porterebbe dritti ad un curioso ibrido post democratico, se permette….
Il rischio di un sistema in cui il partito di maggioranza relativa prende tutto, su tutti i fronti, in effetti esiste, e occorre mettere a punto correttivi seri. L’Italicum, ossia la futura legge elettorale, va quindi alzando la soglia per ottenere il premio di maggioranza, e riducendo invece lo sbarramento per ottenere rappresentanza parlamentare, per partiti non in coalizione. Insomma: attenti a non sacrificare rappresentatività, e rappresentanza, in nome della governabilità. E poi c’è il tema della scelta degli eletti, alla Camera, da parte degli elettori: le preferenze hanno i loro limiti, lo sappiamo, specie se i collegi sono troppo ampi. Per me l’ideale rimangono collegi uninominali, di dimensioni ragionevoli, che consentano agli elettori di sapere per chi stanno votando.
Senatore, oggi quanto pesa davvero elettoralmente Renzi, e quanto spazio c’è alla sua sinistra?
Tema interessante, su cui stanno uscendo anche studi innovativi. La realtà è che la rendita di posizione di un tempo è finita: o meglio, solo il 50% dell’elettorato ha una posizione identitaria forte e stabile. Un altro 25% non vota più. L’altro 25% decide solo nelle ultime settimane, o giorni. Ed è questa porzione di elettorato a fare la differenza. All’interno del Pd, facendo riferimento al famoso 40,8% delle Europee (dato un po’ gonfiato da un’astensione molto alta, per lo più di elettori di centro destra delusi), i dati ci dicono che il 25% è un elettorato di area, di appartenenza. Un 15% è elettorato ‘renziano’. Le offro solo numeri, senza commenti. Se poi mi chiede cosa succede invece a sinistra del Pd, mi pare che ci sia una continua ricerca, anche apprezzabile, ma ancora ben poco di nuovo e consistente.
E a casa nostra il Pd come sta, dopo un anno a dir poco tormentato? State ritrovando l’unità interna?
E’ l’obiettivo assolutamente primario, dopo le vicende pre-elettorali. Ma la situazione è assolutamente sotto controllo, sia chiaro: la casa non sta bruciando, né le contrapposizioni tra renziani, cuperliani e civatiani hanno mai portato a spaccature clamorose, o a ‘militarizzazioni’ del partito. Certo, ora data l’incompatibilità di Mimmo Ravetti, eletto consigliere regionale, serve un nuovo segretario, e dopo la parentesi legata alle elezioni provinciali ci arriveremo. Di sicuro dobbiamo trovare una figura autorevole, e capace di grande dialogo e confronto: all’insegna del partito ‘plurale’ ma unito, appunto.
Ettore Grassano