“Rigore è quando arbitro fischia.”
Vujadin Boškov, citato in M.Malvaldi e D. Leporini, “Capra e calcoli. L’eterna lotta tra gli algoritmi e il caos”, Editori Laterza, Bari 2014
Due recenti articoli, per certi aspetti collegati tra di loro, hanno attirato la mia attenzione: sono “Politica fiscale per battere la depressione”, di Guido Tabellini (Il Sole 24 Ore di domenica 7 settembre) e “Il ritorno del rigore” di Federico Fubini (Repubblica di venerdì 12 settembre).
Nel primo, si solleva qualche dubbio sulla reale efficacia della politica monetaria della BCE per contrastare la depressione: “L’esperienza di Stati Uniti, Inghilterra e Giappone – scrive il professor Tabellini – suggerisce che, per uscire da una crisi così profonda, la politica monetaria da sola è insufficiente, ed è necessaria una combinazione di politica monetaria e fiscale”.
Nel secondo, Fubini mette in evidenza il possibile disaccordo tra l’annunciata politica di espansione monetaria che sta per essere messa in atto dalla BCE di Mario Draghi, volta a stimolare la crescita delle economie dell’eurozona, e il manifestato «orgoglio» della Cancelliera tedesca Angela Merkel per i risultati (apparentemente) conseguiti dal suo paese con la politica del rigore: “Nel 2014 il governo tedesco anticipa di due anni il pareggio strutturale (…). E nel 2015 punta al deficit zero”. Fin qui i motivi di orgoglio. Al tempo stesso, però, sottolinea Fubini, “l’economia in estate si è contratta, gli investimenti continuano a scendere e la Repubblica federale continua a non spendere, ma a parcheggiare in titoli a rendimento zero un surplus negli scambi con il resto del mondo senza eguali né precedenti”.
Per comprendere appieno il significato (e le implicazioni) di questi due articoli occorre conoscere non solo il significato dei concetti utilizzati (cosa si intende per politica monetaria e per politica fiscale, se tali politiche hanno lo stesso significato negli USA e nella UE, in che modo e con quali limiti esse interagiscono con l’economia reale, qual è il ruolo che giocano gli investimenti, quale importanza assume il surplus degli scambi commerciali), ma anche i nessi logici che intercorrono tra gli stessi: in altri termini, occorrerebbe un intero corso universitario di Politica economica.
Dalla lettura di un buon manuale di Macroeconomia si apprende che la politica monetaria e la politica fiscale consistono, la prima, nella gestione della quantità di moneta in circolazione e la seconda nella gestione del Bilancio dello Stato, entrambe in funzione di un qualche obiettivo. Così, mentre nella Macroeconomia di ispirazione keynesiana, alla quale paradossalmente si ispira la Federal Reserve statunitense, la politica monetaria è finalizzata ad influire principalmente sull’economia reale (contrastando le ripercussioni del ciclo economico sull’occupazione), nel contesto dell’Unione Europea, lo scopo della politica monetaria, stabilito espressamente dal Trattato di Maastricht, è essenzialmente quello di controllare la stabilità della moneta, facendo in modo che l’inflazione media nei paesi dell’eurozona non superi il 2% all’anno.
Negli USA agiscono due distinte autorità: la FED cui spetta il compito di gestire la politica monetaria e il Tesoro, al quale è affidato il compito di gestire il Bilancio dello Stato. Come l’esperienza di questi ultimi anni ha dimostrato, queste due autorità hanno operato di comune accordo per contrastare la crisi economica: la politica monetaria è stata improntata all’aumento della quantità di moneta in circolazione (il cosiddetto quantitative easing, o allentamento monetario), allo scopo di agevolare gli interventi di politica fiscale (essenzialmente di aumento della spesa pubblica in infrastrutture) messe in opera dal Tesoro.
Nell’Unione Europea la politica monetaria è gestita da una autorità indipendente (la BCE), finalizzata al controllo dell’inflazione e senza alcun coordinamento con la politica fiscale. Politica fiscale che il Trattato ha lasciato di competenza dei singoli governi nazionali, assoggettandola ai famosi vincoli che il deficit non debba superare il 3% del PIL e che il debito pubblico non ecceda il 60% del PIL e più recentemente al Fiscal Compact. Fino a quando la competenza dell’intera materia della politica fiscale non verrà trasferita ad un’unica autorità sovrannazionale (qualcosa di analogo al Tesoro statunitense), l ’auspicio rivolto dal professor Tabellini di un’azione coordinata delle due politiche è destinato a rimanere tale. Con l’occhio rivolto al proprio elettorato, ciascun governo nazionale cercherà infatti di guardare al proprio interesse e solo in subordine a quello più generale. Ne sono esempio l’insistenza e la cocciutaggine tedesca sui benefici dell’austerità e il tentativo dei paesi con i maggiori problemi di bilancio di ottenere qualche forma di “flessibilità” nell’interpretazione dei vincoli, in cambio della promessa di attuare delle “riforme strutturali” (giocando sull’ambiguità dei termini).
Quanto ai temi sollevati da Fubini, è ormai da troppo tempo che gli economisti più attenti al crescente malumore degli euroscettici sottoscrivono appelli per far uscire l’Unione Europea dal guado che la separa da una autentica Unione federale sul tipo degli Stati Uniti d’America. Ciò, nella consapevolezza che con tassi di interesse prossimi allo zero la politica monetaria è inefficace nello stimolare gli investimenti reali, che con l’eccesso di capacità produttiva provocato dalla crisi economica, la possibilità che questi ultimi riprendano a crescere è strettamente legata alla ripresa della domanda interna (principalmente nella componente dei consumi delle famiglie) e che in un contesto di Unione monetaria (cioè in presenza di una moneta unica) gli eccessi della bilancia commerciale dei paesi creditori debbono essere gestiti con misure di politica fiscale in funzione del riequilibrio delle bilance dei paesi in difficoltà.
Per quanto riguarda il nostro paese è illusorio pensare che con gli stipendi e le pensioni bloccati da anni; la disoccupazione (specie quella giovanile) e la povertà ai massimi storici; nell’impossibilità per le famiglie e le imprese di far fronte ai mutui e di accederne dei nuovi, di pagare le imposte sui redditi e le tasse sulla casa; con un’evasione fiscale che non ha eguali in Europa e con i continui tagli alla spesa pubblica (in particolare all’istruzione e alla ricerca), si riesca a ristabilire quel clima di fiducia necessario per invertire la situazione economica e far uscire il paese dalla depressione. Il tutto in presenza di un arbitro che continua a fischiare rigori.