Così scriveva l’amico Pierangelo Garzia, psichiatra e studioso di rango, il 18 luglio su Facebook:
«Loro ci ricordano continuamente cosa siamo diventati. Ma noi preferiamo vederli passare come ombre. In metropolitana c’è un uomo che striscia per terra. E’ un tronco senza gambe sino al bacino. Si spinge con le braccia. In una mano tiene il bicchiere di carta consunta per le offerte. E tutti noi continuiamo a giocare con lo smartphone. A guardare dall’altra parte. A tenerci stretti i sacchetti, pure noi, ma pieni di minchiate. A farci i cazzi nostri. Ma cosa siamo diventati?»
Loro chi? Sono tanti, meno fortunati, ombre ai margini e dentro la società. Una pletora di carne e sangue in espansione che, fra i vari effetti collaterali, accentua con la sua presenza la tendenza – che pare inarrestabile – a questa solitudine tecnologica che sta crescendo e mutando in entità in grado di “possedere”. Perché, come scrisse Fritz Leiber, siamo tutti soli e le macchine portatili se ne approfittano.
Il che ci porta a parlare dell’ultimo corto di Michele Pastrello, regista italiano tra i più interessanti di questi anni. Il lavoro s’intitola Desktop e potete visionarlo in rete senza problemi. Vedrete nei pochi minuti della sua durata, in un montaggio alternato che da solo è un purissimo e straordinario esercizio di linguaggio thrilling, lo scorcio descrittivo di due solitudini (un lui e un lei più o meno sulla trentina) all’interno di altrettanti contesti che più differenti e lontani non potrebbero essere. Lei vive in una metropoli, in una realtà lavorativa frenetica e conflittuale, circondata da gente ma senza un vero rapporto umano. Lui sta in montagna, tra silenzi innevati e una natura non ostile ma indifferente, e conta i giorni sul calendario. Il silenzio, quello dell’anima – interno, li accomuna, così come gesti quotidiani e sensazioni provate. Non sanno, non possono sapere nulla l’uno dell’altra, perché distano chissà quante centinaia di chilometri. Eppure per un pochi istanti le loro solitudini collidono e non sono più tali, complice il desktop di un computer. Come? Beh, guardate il corto e scoprirete fin dove può arrivare la magia del cinema.
In verità vorrei spingermi al di là della metafora implicita, ovvero quella denuncia della solitudine umana ingigantita dalla tecnologia cui non sappiamo più rinunciare. Mi piace ipotizzare che, nella mente di Pastrello, ci stiamo muovendo anche nel multiverso, in quell’insieme di universi coesistenti e alternativi al di fuori del nostro spaziotempo, che la letteratura e il cinema di fantascienza hanno divulgato come “dimensioni parallele”. Fisica quantistica, insomma. Nella quale universi per definizione non comunicanti possono per frazioni infinitesimali di tempo “aprirsi” e provocare un transito di informazioni dall’una all’altra parte e viceversa. E persino influenzarsi reciprocamente. Sono teorie sulle quali da anni la scienza sta discutendo e portando anche prove a sostegno su un piano un po’ più che teorico. Tra le varie proposte si può citare quella degli “universi a bolla” che ha ricevuto alcune conferme sperimentali e che comporta l’ipotesi della creazione di universi derivanti dalla schiuma quantistica di un “universo genitore”.
La schiuma ribolle per effetto di fluttuazioni di energia in grado di creare dei wormhole, cunicoli spaziotemporali la cui esistenza spiegherebbe la condivisione esistenziale di Desktop. Non intendo appesantire ulteriormente le mie considerazioni, ma il fatto è che la stessa differenza “dimensionale” tra i due personaggi del corto sembra indicare contenuti che vanno un po’ oltre il concetto di metafora.
Esistono peraltro più autori che forse inconsapevolmente, magari nel maneggiare quel che si reputa una metafora, si sono serviti dell’idea innata del multiverso. Si prenda ad esempio la scena finale dell’ultimo Ozpetek, Allacciate le cinture, dove i protagonisti incontrano per un attimo sé stessi quali erano 13 anni prima, spiegando in questo modo un passaggio della prima parte che poteva risultare enigmatico e superfluo. Incontrare sé stessi nel multiverso. Io esisto in ognuno degli altri mondi. Il saperlo, l’esserne cosciente, può renderci ancora più soli?
La foto qui a fianco ritrae una scena abituale e quotidiana, alla quale abbiamo fatto il callo. E che risulta statisticamente normale, ma alla quale ben si applica la domanda posta da Pierangelo Garzia: Cosa siamo diventati ognuno perso nel suo cellulare o nel suo smartphone? Perché non è che rinunciamo alla comunicazione col nostro vicino di tavolo per comunicare via telefonica con qualcun altro. In realtà noi uccidiamo, abbiamo ucciso, la vera comunicazione per aprire e gestire una relazione tecnologica con il nostro strumento. Non è importante con chi parliamo, di sicuro parliamo e interagiamo con Lui, cellulare o smartphone. O con Lei, come accade con chiarezza nel film omonimo di Spike Jonze.
E infine occhio: sulla solitudine tecnologica del mondo occidentale, questa perdita di sé stessi in cornici-portali a misura di mano, qualcuno ci sta già marciando. Perché qualcuno ha ben capito quanto siamo enormemente assenti, distratti ed emotivamente freddi. E paradossalmente disconnessi, illudendoci di essere connessi. Se non ci credete, leggete con attenzione la cronaca di ogni giorno. Magari su un giornale di carta.