Islam. Isis. Terrorismo. Fondamentalismo. Lotta di civiltà. Negli ultimi giorni i mass media occidentali hanno riempito le prime pagine con il ritorno della minaccia islamica. Ancora una volta, dopo l’11 settembre 2001, pare che il pericolo del terrorismo religioso ci minacci nuovamente con un’ondata ancora più violenta di quella precedente.
Sebbene i miliziani dello Stato Islamico siano circa 50 mila, in confronto al miliardo circa di musulmani nel mondo, l’enorme sforzo che la comunità islamica europea ha fatto negli ultimi 10 anni per integrarsi (e che fatica!), nonostante le reticenze dei più, rischia di essere vano. In un clima ad alta tensione, dove il nemico può essere addirittura nostro vicino di casa, se ne sono dette di tutti i colori. Chi ha parlato di dis-integrazione. Chi propone la chiusura di tutti i centri islamici. Chi sostiene che i terroristi siano tra le schiere di quei poveri cristi che arrivano a Lampedusa. Già, proprio Lampedusa, la terra da noi tanto bistrattata, ma per i profughi uno spiraglio di salvezza.
La retorica anti-immigrazione è un leitmotiv della politica italiana e non solo. È opinione comune, ormai, che il clandestino debba tornare a casa, che non ne possiamo più tenere, che non abbiamo fondi. Fermo restando che, come ha sostenuto uno studioso di geopolitca Riccardo Redaelli, l’opinione pubblica sbaglia il 99,9% delle volte, in questa sede non voglio esprimere nessun parere personale. Quello che mi interessa è capire come funziona la politica di integrazione nella Provincia di Alessandria.
Per farlo ho visitato l’Ostello di Santa Maria di Castello, nel centro storico del nostro capoluogo. La gestrice si chiama Vanda, una piccola signora molto affabile che mi accoglie insieme a un omone sorridente, Ahmed Osman, mediatore culturale, che devo intervistare.
Il centro è mantenuto ottimamente, è pulito e spazioso, un ampio chiostro di colore bianco lucente. L’ostello è una struttura di prima accoglienza. In pratica i profughi arrivano qui, poi chi vuole ricevere asilo ne fa domanda e viene smistato in appartamenti in Alessandria, Tortona e Casale; chi invece vuole raggiungere altri stati, lascia il centro. Ahmed mi ha detto che molti decidono di lasciare il centro perché i medio-orientali prediligono stati come Germania e Svezia. E allora i mediatori forniscono loro le informazioni in modo da non farsi sfruttare durante il viaggio. Al momento nel centro, in attesa di sistemazione, ci sono 12 bengalesi e 8 nigeriani. Durante la giornata l’attività preponderante è l’apprendimento della lingua italiana insegnata da personale competente. E’ il primo passo per l’integrazione che, come sostiene Ahmed, “deve essere voluta in primis da chi arriva”.
Che se ne dica, la struttura non è pienamente utilizzata. Alla zona alessandrina sono assegnati un massimo di 400 immigrati, ma ovviamente sono molti di meno. Alcuni si perdono durante l’iter burocratico, alcuni scappano, altri vogliono raggiungere altre zone, altri ancora rimangono e vengono integrati. Sono avvicinati, oltre che alla lingua, ad ogni aspetto della cultura nostrana. E non è tutto a spese del contribuente, per due motivi. Il primo è che l’Italia è il paese europeo con la spesa più bassa per l’integrazione (i fondi sono destinati all’espulsione). Il secondo è che i fondi sono europei e condivisi quindi da tutti i membri dell’Unione. Due miti sfatati in due righe.
Molto c’è ancora da fare. Ad esempio sfruttare al meglio le strutture. Ad esempio spingere i soliti razzisti a capire che l’integrazione non significa l’arrivo del terrorismo islamico, di malattie o di delinquenza. Ad esempio migliorando la rete di distribuzione delle risorse.
Sicuramente, nonostante i problemi internazionali e la nascente paura dell’Altro, ecco a nella nostra terra una buona realtà. Consiglierei a tutti, soprattutto i più scettici, un bel giretto una tantum.
L’intervista ad Ahmed Osman, mediatore culturale della Provincia di Alessandria, verrà pubblicata martedì su CorriereAl.