Crescita e recessione

Soro Bruno 2di Bruno Soro

“La natura del pensiero scientifico è critica, ribelle, insofferente di ogni concezione a priori, a ogni riverenza, a ogni verità intoccabile. La ricerca della conoscenza non si nutre di certezza: si nutre di una radicale mancanza di certezze.”
C. Rovelli, “La realtà non è come ci appare”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2014.

 
Parafrasando il titolo del libro del fisico Carlo Rovelli citato nell’epigramma, il dibattito che ha accompagnato il recente comunicato dell’ISTAT sull’analisi congiunturale potrebbe essere così sintetizzato: “la realtà è come ci pare”. Tra i commentatori c’è stato chi, infatti, come il Ministro dello Sviluppo Federica Guidi, si consola, sostenendo che “quello di oggi non è un rallentamento solo italiano, ma quanto meno di tutta la zona euro”; chi, come l’economista francese Jean Paul Fitoussi, si dice convinto che le cause della recessione vadano imputate alla politica di austerità che sta “condannando l’Italia e altri paesi alla decrescita”. Chi, come l’economista Daniel Gros, Direttore del Centre for European Policy Studies, riconduce la mancata crescita del secondo trimestre del 2014 al fatto che “i flussi verso l’estero non sono riusciti a compensare la debolezza della domanda interna”. C’è chi, poi, come Tito Boeri, docente di Economia del lavoro all’Università Bocconi, editorialista di Repubblica, nonché uno dei fondatori della prestigiosa rivista on line www.lavoce.info sostiene che occorra “scegliere una riforma economica, per esempio quella del lavoro, e completarla in due mesi, inclusi i decreti attuativi. E poi sperare che la BCE cambi politica”. C’è chi, infine, come il sociologo Luca Ricolfi, critica la “sufficienza (di) chi considera importante qualche decimale in più o in meno”, dal momento che “crescere o invece decrescere dello 0,2% fa differenza, avere un debito pubblico in diminuzione o in aumento fa differenza, entrare in recessione piuttosto che uscirne fa differenza. Una differenza enorme”.

Come stanno veramente le cose?
Forse vale la pena di iniziare la riflessione su quel comunicato chiarendo il significato di alcuni termini. Per «crescita economica» s’intende la variazione del PIL (in aumento o in diminuzione) verificatasi in un determinato periodo di tempo (solitamente l’anno, quando l’ISTAT fa la conta della produzione realmente effettuata, oppure, il trimestre, quando l’andamento della produzione viene stimato sulla base di “indicatori di riferimento”). La variazione assoluta (la crescita economica) in rapporto al valore del PIL del periodo precedente (a seconda che sia l’anno oppure il trimestre), fornisce il tasso percentuale di crescita del PIL (che può essere positivo o negativo). Per convenzione, si dice inoltre che l’economia è entrata in «recessione» quando per due trimestri consecutivi il tasso di crescita trimestrale è negativo. Infine, con riguardo alle stime trimestrali, se il confronto avviene tra la stima del trimestre in corso con quello precedente (nel nostro caso, confrontando il 2° trimestre 2014 con il 1° trimestre 2014), si ottiene una stima dell’andamento «congiunturale»; se si confronta invece il trimestre in corso con lo stesso trimestre dell’anno precedente (il 2° trimestre 2014 con il 2° trimestre 2013), si ha una stima dell’andamento «tendenziale».
Nel comunicato diffuso il 6 agosto scorso si legge che nel secondo trimestre del 2014, il PIL valutato a prezzi costanti sarebbe (il condizionale è d’obbligo, trattandosi di stime) “diminuito dello 0,2% rispetto al trimestre precedente [nello stesso periodo il PIL sarebbe aumentato dell’1% negli USA e dello 0,8% nel Regno Unito] e dello 0,3% nei confronti del 2° trimestre 2013 [+2,4% negli USA e +3,1% nel Regno Unito]”. “Il calo congiunturale – si legge ancora nel comunicato – è la sintesi di una diminuzione del valore aggiunto in tutti e tre i grandi comparti di attività economica: agricoltura, industria e servizi. Dal lato della domanda, il contributo alla variazione congiunturale del PIL della componente nazionale al lordo delle scorte risulta nullo, mentre quello della componente estera netta è negativo”. Mentre la crescita acquisita per l’anno in corso, quella che si avrebbe se nei trimestri a venire la crescita fosse nulla, risulta essere pari a -0,3%.

Per apprezzare appieno il contenuto del comunicato dell’ISTAT occorre conoscere bene il significato dei termini colà utilizzati: il Prodotto interno lordo (PIL) è misurato dalla somma dei «valori aggiunti» (ovvero la differenza tra il fatturato venduto di ciascuna impresa e il fatturato acquistato dalla stessa da altre imprese) dei tre grandi comparti di attività (agricoltura, industria e terziario), somma che definisce contestualmente anche il Reddito interno lordo (RIL), vale a dire l’insieme dei redditi, distribuiti sotto forma di «redditi da lavoro dipendente» e «altri redditi», a tutti coloro che hanno partecipato al processo produttivo (in altri termini la distribuzione del valore aggiunto). Il PIL, che per definizione dunque equivale al RIL, è il flusso (annuale o trimestrale) del reddito che fluisce alle famiglie degli italiani nel periodo di tempo considerato. Nulla a che vedere con la «ricchezza», il valore della quale è dato, invece, dai risparmi accumulati nel corso del tempo (confondere il flusso del reddito con lo stock della ricchezza, come anche qualche giornalista digiuno di economia fa, equivale a confrontare l’acqua che fuoriesce dal rubinetto e che in un certo tempo riempie la vasca da bagno, con il contenuto della vasca calcolato in un dato istante). Si può dimostrare inoltre che, fatta salva la ricostituzione delle scorte da parte delle imprese, tutto ciò che viene prodotto viene anche venduto (e conseguentemente anche acquistato), ragion per cui il valore del PIL risulterà equivalente anche alla spesa complessiva, la cosiddetta «domanda aggregata», rappresentata dalla somma degli acquisti effettuati dalle famiglie (i «Consumi privati»), dalla Pubblica amministrazione (la «Spesa pubblica»), dalle imprese per l’acquisto di beni strumentali nuovi (gli «Investimenti reali») e dalla «componente estera» (le «esportazioni nette», ossia le esportazioni al netto delle importazioni). Tutti questi concetti attengono agli schemi della contabilità nazionale, contabilità che, fatte le dovute proporzioni, equivale in un certo senso al bilancio aziendale per le imprese (o a quello delle famiglie). Tali schemi forniscono “i numeri” della crescita e/o della recessione. Fin qui, dunque, le informazioni contenute nel comunicato dell’ISTAT sulla stima preliminare del PIL per il secondo trimestre 2014. Occorrerà ora attendere il 14 novembre prossimo per conoscere la situazione congiunturale del terzo trimestre.

I numeri, però, come si è visto, sono suscettibili di essere diversamente interpretati. Al fine di una corretta interpretazione essi andrebbero collocati in un contesto più ampio, uscendo dal contesto congiunturale. Così, ad esempio, è stato ha fatto in un bel servizio grafico riportato su La Stampa di giovedì 7 agosto, servizio dal quale si evince che nei sette anni della crisi, dal 2007 al 2014, l’economia italiana è entrata “tecnicamente” in recessione tre volte: la prima nel terzo trimestre del 2008 (dalla quale ne uscirà nel terzo trimestre del 2009); la seconda nel quarto trimestre del 2011 (dalla quale ne uscirà nel quarto trimestre del 2013) e ora nel secondo trimestre del 2014. Complessivamente, quindi, e in un’ottica di tipo congiunturale, dall’inizio della crisi vi sono stati ben 18 trimestri con variazioni congiunturali del PIL negative, contro 12 trimestri con variazioni congiunturali positive. In seguito a tale andamento, l’indice del PIL ha fatto registrare tra il 2007 e il 2014 una riduzione di ben 8,8 punti percentuali, il che significa che nei sette anni della crisi il reddito complessivo delle famiglie degli italiani si è ridotto di poco meno del 9%.
Per apprezzare meglio i commenti riportati all’inizio, sarà bene tenere presente le seguenti informazioni tratte dai Conti economici nazionali dell’ISTAT: a partire dal 1970, il tasso di crescita dell’economia italiana si è progressivamente ridotto dal 3,8% del decennio 1970-80, al 2,4% degli anni ’80, all’1,6 degli anni ’90, allo 0,3% dei primi dieci anni del nuovo Millennio.

Il problema, quindi, non è assolutamente di tipo congiunturale, dal momento che il progressivo rallentamento ha riguardato l’ultimo mezzo secolo di storia patria e a partire dall’inizio del nuovo secolo si può tranquillamente affermare che l’economia italiana è in stagnazione. Se poi consideriamo le quote dei singoli comparti produttivi sul valore aggiunto complessivo, la quota del V.A. dell’agricoltura è scesa dall’ 8,9% del 1970 al 2,25% del 2009; quella dell’industria in senso stretto (al netto delle costruzioni) è scesa dal 30,0% al 18,5%; la quota dei servizi del Commercio, riparazioni, alberghi e ristoranti, trasporti e comunicazioni è rimasta sostanzialmente immutata dal 21,0% del 1970 al 22,2% del 2009; quella dei servizi per intermediazione monetaria e finanziaria, attività immobiliari e imprenditoriali invece è più che raddoppiata, salendo dal 14,4% del 1970 al 29,0% del 2009; la quota, infine, delle altre attività di servizi è salita dal 16,6% al 21,9%. Nell’arco di mezzo secolo, l’economia italiana si è dunque trasformata (al pari delle maggiori economie europee, come la Francia, la Germania la Spagna e il Regno Unito) da prevalentemente industriale in una economia fortemente terziarizzata, nella quale il settore dei servizi nel suo insieme produce ora il 73,0% del valore aggiunto complessivo (poco meno di due terzi). Nel frattempo, la quota dei redditi da lavoro dipendente è scesa dal suo valore massimo (51,2% raggiunto nel 1975) al 42,9% del 2009, mentre per quanto riguarda la domanda aggregata, la quota del consumo sul reddito è rimasta sostanzialmente stabile attorno all’80%; le esportazioni nette hanno presentato, tranne per il 1992, un saldo positivo, con una forte accelerazione nel decennio 1993-2004, mentre gli investimenti reali (gli impianti e i macchinari ad uso produttivo) sono crollati dal 23,6% del 1970 al 19,1% nel 2009.

Sulla base di questi dati ci sembra di poter affermare che l’economia italiana, che nel 1962 aveva raggiunto la quinta posizione nella graduatoria delle prime dieci potenze economiche a livello mondiale, per poi scendere gradualmente alla nona posizione del 2012, è entrata da tempo in una fase di declino economico, fase della quale la situazione congiunturale dell’ultimo trimestre appare come un violento acquazzone in una stagione autunnale che volge all’inverno.

Basteranno le “riforme” per il momento solamente annunciate dal Governo di Matteo Renzi per invertire la tendenza? Senza una seria politica industriale che punti alla ricostituzione dell’apparato produttivo manifatturiero messo in ginocchio dalla crisi e dalle politiche di austerità imposte dall’Unione Europea, dubito che ciò sia sufficiente. E ciò che più mi rammarica è che non vedo all’orizzonte valide alternative. Imputare la colpa del declino economico al ventennio berlusconiano è un comodo alibi, ma pensare che la “grande coalizione” che tiene in piedi l’attuale maggioranza, per di più puntellata dalle forze politiche che hanno contribuito non poco a portare il paese nella situazione attuale possa essere in grado di dare una svolta al degrado culturale in cui il paese è precipitato, è a dir poco velleitario. Ma forse sono eccessivamente pessimista.