Il «vero problema»

Soro Bruno 2di Bruno Soro

“La statistica è quella che cerca di mostrarci cosa è accaduto e di aiutarci a pensare (e a pianificare) cosa accadrà allineando e comparando cifre. (…) Di statistica in statistica le comparazioni si fanno sempre più ipotetiche, interpretare le statistiche non è molto diverso dall’azzardare ipotesi in una indagine poliziesca. I teorici della probabilità citano esempi di interpretazioni aberranti: se su cento casi di cirrosi epatica la statistica dice che dieci soggetti bevevano abitualmente whisky e soda, dieci bevevano gin e soda, altri dieci cognac e soda e così via, lo scienziato imbecille potrebbe giungere alla conclusione che, solo elemento costante, la soda è la causa sicura della cirrosi”.
U. Eco, Il miracolo di S. Baudolino, Carlo Maccagno – Tipografo in Alessandria, 1989

 

“Il vero problema dell’Italia – scrive Luca Ricolfi nell’editoriale apparso su La Stampa del 20 luglio scorso – è (anzi, è diventato) il suo bassissimo tasso di occupazione”, anormalmente basso sia in confronto agli altri paesi più simili al nostro, sia con riguardo al nostro passato. Calcolato come rapporto tra il numero degli occupati e la popolazione in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni), questo indicatore eserciterebbe “un enorme impatto sui due parametri fondamentali con cui siamo soliti giudicare (l’economia di un Paese): il suo livello di benessere e il suo grado di uguaglianza”.

Nell’interpretazione di Ricolfi, il tasso di occupazione dipenderebbe “in modo crucialeRicolfi Luca dalla flessibilità del mercato del lavoro e dalla ricostituzione dei margini di profitto delle imprese, due assoluti tabù del dibattito italiano degli ultimi anni”. Inoltre, “un tasso di occupazione così basso crea una nuova frattura sociale, quella fra quanti un’occupazione ce l’hanno e quanti sono sostanzialmente esclusi dal mercato del lavoro, ossia i giovani e, in misura ancora maggiore, le donne adulte”. Stando così le cose, i motivi per cui il “vero problema” non verrebbe affrontato sono riconducibili: alla timidezza della politica, la quale non se ne cura, o lo fa in modo sbagliato; al «consenso keynesiano» fra sindacati, industriali e politici, ovvero in quella “credenza che i problemi dell’economia italiana si possano affrontare solo con misure di sostegno della domanda interna”; e, infine, la “verità più amara e politicamente scorretta”, la mancata percezione da parte dei cittadini della serietà della situazione. Ciò, nonostante il fatto che “il numero dei poveri sia raddoppiato in questi anni di crisi, i giovani stentino a trovare un lavoro e le donne adulte manco lo cerchino”, e nonostante i mass media “da anni dipingano un quadro della situazione drammatico”. E il motivo per cui “la percezione del dramma stenta a farsi largo nelle menti della maggior parte di noi” – spiega Ricolfi – andrebbe ricercato nel fatto che “il benessere raggiunto alla fine del XX secolo e la ricchezza accumulata dalle due generazioni precedenti erano così elevati che oggi ne beneficiamo ancora, e proprio per questo non siamo pronti ad una reazione”.

L’analisi di Ricolfi appare poco convincente sotto diversi aspetti. Se è vero, infatti, che in Italia il tasso di occupazione, a prescindere dal genere e dall’età, è inferiore alla media europea ed è tra i più bassi tra tutti i 28 paesi della UE (essendo superiore solo a quello della Grecia, della Spagna e della Croazia), è altrettanto vero che dal 2006 al 2013 (periodo nel quale sono disponibili i dati forniti da EUROSTAT e ai quali facciamo riferimento), il tasso di occupazione, con le eccezioni che vedremo, è diminuito in tutti i paesi europei. Fanno eccezione Germania, Austria, Polonia, Romania e Svezia, paesi nei quali la crescita economica in termini reali è stata superiore alla media europea. Il tasso di occupazione è sceso invece marcatamente in Portogallo, Cipro, Spagna, Grecia e Irlanda, i paesi che, assieme al nostro, sono stati maggiormente colpiti dalla crisi, e nei quali la crescita è risultata negativa o se positiva, è avvenuta ad un tasso inferiore alla media europea. E’ nostra opinione, pertanto, che il “vero problema”, e non solo dell’economia italiana, sia la mancata crescita, dalla quale l’andamento del tasso di occupazione dipende. Mancata crescita imputabile essenzialmente alle politiche di austerità attuate, quanto meno nel nostro paese, dagli ultimi governi, in ottemperanza di un dictat europeo.

Già nel giugno 2010, infatti, gli effetti negativi della mancata crescita e i pericoli dell’austerità erano stati oggetto di un appello, inviato alle Autorità politiche italiane e ai rappresentanti italiani nelle Istituzioni della UE e del SEBC (il Sistema europeo delle banche centrali, cui spetta la gestione della politica monetaria dell’Unione), sottoscritto da trecento economisti delle più importanti università italiane ed europee. In esso si denunciava il “profilo liberista del Trattato dell’Unione e dell’orientamento di politica economica restrittiva dei Paesi membri con un sistematico avanzo commerciale”. Un secondo appello, in realtà un vero e proprio monito contro l’ossimoro dell’austerità espansiva, è poi apparso sul Financial Times nel settembre del 2013 e firmato da centoventisei economisti delle principali università europee. Un monito, nel quale veniva stigmatizzata la “fantasiosa dottrina dell’austerità espansiva, secondo cui le restrizioni dei bilanci pubblici avrebbero ripristinato la fiducia dei mercati sulla solvibilità dei paesi dell’Unione”, quando, in realtà, “le politiche di austerity hanno accentuato la crisi”, alimentando per di più una insostenibile situazione occupazionale nei paesi della UE, “che non ha precedenti dal secondo dopoguerra”.

Posso sbagliarmi, ma se questa interpretazione è corretta – sorvoliamo sull’esistenza di quel «consenso keynesiano» che legherebbe le politiche di sostegno alla domanda interna all’espansione del debito pubblico, frutto di un pregiudizio ideologico o di una scarsa conoscenza della macroeconomia keynesiana – non resta che chiedersi quali siano i fattori dai quali la crescita economica dipende. A questo punto sorge però un primo interrogativo: la crescita economica dipende dalla crescita dei fattori produttivi (il capitale reale, l’occupazione e la tecnologia), oppure è l’andamento di questi ultimi che dipende dalla crescita economica?

In altre parole, si tratta di stabilire quale sia il nesso di causalità, la direzione del quale è un presupposto di ogni «teoria», legato alla particolare visione del processo produttivo sotteso alla elaborazione della «teoria» stessa. Tutto ciò vale nel contesto dell’approccio cosiddetto «riduzionista», quello secondo il quale il sistema economico viene inteso come un sistema “complicato”, quasi come fosse «una macchina», scomponibile nelle singole parti che lo compongono, salvo poi ricomporre l’insieme dopo avere individuato i nessi funzionali che legano tra di loro le singole parti.

Non è certo questa la sede per passare in rassegna i vari filoni di pensiero in cui si articolano le teorie della crescita. Molto schematicamente basterà qui richiamare la tradizionale bipartizione tra coloro che fanno riferimento ad un approccio «formale» oppure ad uno di tipo «valutativo». Si possono ricondurre al primo filone quanti si ispirano ai lavori del Premio Nobel Robert Solow (1924), e alla sua “teoria della funzione di produzione aggregata”, nonché a quelli dei suoi epigoni (autori delle cosiddette “teorie della crescita endogena”), per i quali la crescita economica è imputabile alla disponibilità dei fattori produttivi. In quest’ottica, la crescita economica sarebbe favorita dalla liberalizzazione del «mercato» dei fattori stessi. Al secondo filone appartengono invece autori come Moses Abramovitz (1912-2000), Angus Maddison (1926-2010), Nikolas Kaldor (1908-1986), ed i loro epigoni. Ritenute meno rigorose dai seguaci del filone formale, le teorie di questi autori appaiono maggiormente adatte ad interpretare (e comprendere) problemi sottaciuti o ignorati dai fautori del primo filone (come la convergenza – o la divergenza – tra i sentieri di crescita delle singole economie oppure la natura, il ruolo e gli effetti del progresso tecnico nella crescita economica). Accanto ad essi occorrerebbe considerare anche autori come Georgescu Roegen (1906-1994), l’ispiratore della bio-economia e del filone della decrescita, per i quali, come ironizza K. Boulding (1910-1993), “Chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista”.

Dunque l’individuazione, e tanto meno la soluzione, del «vero problema» è un po’ più complicata di quanto non lascino intendere taluni sociologi ed economisti, forse più interessati a trattare e a commentare questioni di politica, di quanto non siano avvezzi ad approfondire le teorie economiche ed il pensiero economico da cui esse traggono ispirazione. Tanto più che il sistema economico, ancorché complicato, non è una «macchina», nel senso indicato sopra, suscettibile di essere condotta da un policy maker nella direzione auspicata. Esso appartiene alla categoria dei «sistemi complessi», paragonabili a quelli della fisica, caratterizzati da elementi fortemente interconnessi tra di loro e caratterizzati da particolari proprietà (come la presenza di regolarità persistenti e osservabili solo a livello di sistema, non soggetti a semplici relazioni lineari e all’insorgenza di fenomeni di auto-organizzazione). Allo stato dell’arte, il comportamento di questi sistemi è difficilmente prevedibile (se non del tutto impredicibile). Ciò non vuol dire affatto che le tradizionali teorie della crescita economica debbano essere ignorate e abbandonate, anzi, è vero esattamente il contrario: è solo da una più approfondita conoscenza dei meccanismi che consentono di descrivere il funzionamento e l’evoluzione del sistema economico, nonché l’individuazione (attraverso la critica) dei punti deboli di ciascuna teoria, che si eviterebbe ai policy maker di affidarsi, nelle loro decisioni, ai propugnatori (ignari o consapevoli che siano) di puri interessi di parte. O quanto meno di essere consapevoli che questo rischio esiste.

La Salle, 4 agosto 2014