Com’è noto, il grande dramma collettivo dell’11 settembre 2001 ha generato una ricaduta artistica tematica ed estetica. Perché l’evento, da subito, si è trasformato in un mito moderno, il cui stesso “consumo” ne ha fatto un’icona sospesa tra realtà e allucinazione, una sorta di lucida anticipazione dell’Apocalisse nella quale un po’ tutti, più o meno consapevolmente, siamo oggi immersi, soprattutto nelle personali zone infere.
Parlo, ovviamente, di film e libri. Per i primi ne parlerò in seguito perché trattasi di un discorso complesso e interessante che coinvolge un sacco di titoli, soprattutto per l’uso indebito e ispirativo che ancora trovano quelle scioccanti immagini di distruzione metropolitana in parecchi film fantastici anche insospettabili.
Per quel che riguarda la letteratura, una lista minima prevede: Good Life di Jay McInerney, Molto forte, incredibilmente vicino di Safran Foer, Windows of the World di Frédéric Beigbeder, Sabato di Ian McEwan, La città fantasma di Patrick McGrath, Giochi d’infanzia di Lynne Sharon Schwartz e (assoluto) L’uomo che cade di Don Delillo.
Si tratta di romanzi post-traumatici, ognuno con il suo registro preferenziale, dove il realismo – come in un gioco a specchio con la tragedia delle Torri – cede spesso il passo a una dimensione sospesa tra il magico e i confini del reale, dove l’inconscio riemerge e spadroneggia.
Ma quel che il mainstream non può fare dichiaratamente lo può fare il genere. Ed ecco come l’horror possa impadronirsi alla sua maniera e con i propri mezzi, che non sono né pochi né banali, dell’orrore supremo di quella giornata.
Mi tocca pure il citarmi in quanto presumo di avere scritto in tempi non sospetti l’unico romanzo nostrano che entra dentro agli eventi delle Torri Gemelle per tentare di darne una spiegazione in chiave ovviamente metaforica (quasi…), intrecciando la magia nera e certi demoni della modernità.
Si chiama Black Magic Woman ed è da poco tornato in digitale. Conta estimatori di rango che lo ficcano tra le mie opere più riuscite. Ai posteri.
Archiviata il più velocemente possibile la fase che mi riguarda, con un salto qualitativo blasfemo quanto casuale ci tocca proseguire con il Re Stephen King e il suo stupendo racconto lungo Le voci delle cose in cui un impiegato di una compagnia assicurativa con sede alle Twin Towers decide la mattina dell’11 settembre di darsi malato e di non andare in ufficio. Scampato così alla morte per purissimo caso, l’uomo dovrà fare i conti con il recente e tragico passato che torna alla lettera, materializzandosi in casa sua sotto forma di “oggetti”: gli occhiali di una collega, una mazza da baseball, una conchiglia, un cuscino, ovvero tutte “cose” che non dovrebbero più esistere perché carbonizzate assieme a tutto il resto nel crollo. Ma le cose esistono e a un certo punto “parlano”.
Da King a una vecchia volpe dell’horror britannico, Graham Masterton, che ha scritto più di cento opere tra romanzi e racconti e il cui personaggio/icona, lo stregone lovecraftiano Misquamacus, reso celebre da una pellicola del 1978 interpretata da Tony Curtis, ben si inserisce in queste considerazioni. Ma andiamo per ordine. Com’è noto, il grande solitario di Providence lasciò ai posteri una miriade di appunti che il discepolo August Derleth conservò ed elaborò, trasformandoli in romanzi postumi “a doppia firma”. Tra questi figura Il guardiano della soglia, sulle cui pagine si scopre il nome, minaccioso già di per sé, di Misquamacus, potentissimo stregone indiano in contatto permanente con il pantheon gorgogliante degli “Antichi”. E’ nel ’76 che Masterton se ne appropria per costruire quello che all’apparenza si presenta come un ennesimo demonic tale in salsa post-Esorcista, ma che in realtà è ben altro. Il libro s’intitola The Manitou (in Italia Manitù lo spirito del male, pure titolo del film) e in quattro parole narra la poco piacevole esperienza della giovane Karen Tandy, che un giorno scopre di avere un tumore in crescita alla base del collo. Ma non si tratta di un tumore normale: lì dentro qualcosa pulsa e cresce. Dentro quella massa che aumenta ogni giorno di più c’è, appunto, Misquamacus, che ha scelto un modo a dir poco terribile e bizzarro per reincarnarsi e combattere la civiltà tecnologica del XX secolo. Per fermarlo non serviranno né medici né ospedali né poliziotti o soldati, bensì uno sciamano indiano e un finto chiromante squattrinato che dovranno vedersela con un orrido nano deforme (per quanto dotato di poteri occulti), perché nel frattempo lo stregone si è beccato i raggi X durante la degenza in ospedale di Karen.
Un personaggio oscuro e potente, grazie anche al cinema, al quale Masterton dedica in seguito altri quattro romanzi: Revenge of the Manitou, Burial, Manitou Blood, Blind Panic e il racconto Spirit Jump, dove a ogni tappa il mefitico indiano se ne inventa di cotte e di crude per tornare nel mondo dei vivi americani e vendicare i torti subiti dal popolo dei pellerossa. In Manitou Blood, uscito in Italia nel 2009 (Il sangue di Manitou), il nostro approfitta nientemeno che del tragico snodo dell’11 settembre per incarnarsi – colpa l’infernale calore sprigionatosi dalle torri attaccate – nel Radunatore di Vampiri Vasile Lup e sferrare un incredibile assalto prima psichico e poi fisico nel quale tutta la metropoli viene colpita da un’epidemia di brutali assassini in preda a raptus che uccidono e bevono sangue. Al che poi dilagano i vampiri e allora deve tornare sulla scena la coppia che a ogni romanzo riesce ad avere la meglio su Misquamacus, ovvero il bizzarro chiromante Harry Erskine e lo sciamano indiano John Singing Rock, presente in forma spiritica perché passato tra i più nel precedente romanzo.
A Masterton si affianca il più che esplicito I vampiri dell’11 settembre di Clanash Farjeon, anagramma del nome dell’autore inglese Alan John Scarfe, un romanzo che dimostra ancora quanto il giorno del grande trauma stia dentro agli autori anche a loro dispetto. Un altro famoso autore, nonché notevolissimo addetto ai lavori, che si chiama Tim Lucas lo ha espresso con abilità nelle ultime pagine de Il libro di Renfield. In una intervista di qualche tempo fa, Lucas si è soffermato sui paralleli tra fiction e vita reale: “Nel penultimo capitolo de Il libro di Renfield, siamo nel 2001, c’è un personaggio di nome Richard Harland Smith che legge Dracula nel momento dell’attacco dell’attacco alle Torri, e avverte il senso di invasione e di disperazione dilagare per le strade della sua città. In realtà, Richard non è un personaggio, ma un mio vero amico, e quello che scrive nel romanzo è qualcosa che in realtà ha scritto e pubblicato davvero in un gruppo di discussione online al momento dell’attacco. Stavo scrivendo Il Libro di Renfield, e la sua scoperta di questo parallelo ha offerto alla mia storia un luogo dove concluderla. Non mi piace l’idea di scrivere un romanzo che è solo pura evasione, preferisco dare al mio lettore un senso di fuga dalla realtà, per poi ritrovarsi improvvisamente in prima linea.”
Una concezione “militante” del genere horror che possiamo estendere senza problemi all’amico Andrea G. Colombo e al suo capolavoro Il Diacono, nelle cui pagine trova spazio la possente visione di una Roma devastata dall’Armageddon (l’ultimo – o forse il penultimo – scontro tra le forze del Bene e quelle del Male), nelle cui celeberrime piazze e strade si scatena la ferocia della distruzione metropolitana. Una terza guerra mondiale che richiama chissà con disarmante lucidità la teatralizzazione dell’Assurdo iniziata a Manhattan in quel giorno fatidico.