La BCE, la «sindrome dell’1%» e la priorità dell’Europa

Soro Bruno 2di Bruno Soro
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“Se, per esempio, il dovere di mantenere la stabilità del potere d’acquisto della moneta entro stretti limiti dovesse essere affidato legalmente alla banca centrale, sarebbe a questa possibile di adempiere in ogni circostanza a questo compito?”
J.M. Keynes, “Trattato sulla moneta”, in Keynes. Antologia di scritti economico – politici, a cura di Giacomo Costa, Bologna: Il Mulino, 1978 (p. 133).

Su La Stampa di domenica 15 giugno, Francesco Manacorda riferisce l’opinione dell’ex ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, per il quale l’Europa si troverebbe avvitata nella «sindrome dell’1%»: “1% di crescita [per i paesi dell’eurozona tra il 2002 e il 2102], 1% di inflazione [0,5 a maggio su base annua per l’eurozona], 1% di popolazione che detiene la stragrande maggioranza della ricchezza”.  Lo stesso giorno, su Il Sole 24 Ore, Stefano Folli richiama un’intervista rilasciata al Corriere della Sera dal Premio Nobel Franco Modigliani (1918-2003), maestro tra gli altri di Ezio Tarantelli, vittima delle BR e la cui colpa era principalmente quella di star studiando misure per contrastare la disoccupazione. Rispondendo a una domanda su quale fosse la priorità dell’Europa, Modigliani ebbe ad affermare che le priorità “sono tre: disoccupazione, disoccupazione, disoccupazione”.

E’ curioso come, rifacendosi ad uno studio di Roland Berger, fondatore della prestigiosa società tedesca di consulenza strategica, Manacorda sottolinei “i danni della deindustrializzazione europea” e la necessità “di un grande piano di investimenti sulle infrastrutture finanziato dai privati”, mentre Folli richiami Modigliani che enfatizzava “quanto fosse assurdo che la Banca centrale europea restasse arroccata a protezione della minaccia inflazionistica («che oggi non esiste»).

E’ difficile trovare una sintesi altrettanto significativa ed efficace quanto quella offerta dai due articoli citati per illustrare i limiti delle tradizionali misure di politica economica di stampo keynesiano (sia fiscali che monetarie) con riguardo all’Unione Europea. Da un lato, infatti, il livello raggiunto dall’indebitamento pubblico in molti paesi della UE rende difficoltosa l’attuazione, mediante la spesa pubblica, del piano straordinario per le infrastrutture (reti energetiche, idriche, autostradali e telecomunicazioni), tradizionale campo di intervento della cosiddetta politica fiscale keynesiana. Dall’altro, con tassi di interesse prossimi allo zero, l’efficacia della politica monetaria nel favorire la crescita economica e nel contrastare la disoccupazione finisce per essere pressoché nulla. Qualcuno potrebbe chiedersi: com’è che negli Stati Uniti quelle misure di politica economica parrebbero aver funzionato, facendo uscire quel paese dalle secche della crisi economica, mentre sarebbero inefficaci nello stimolare la crescita nei paesi dell’Unione Europea?    

Detto in altri termini, posto che, come sottolineano Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini in un bell’articolo apparso su Repubblica di mercoledì 11 giugno, l’obiettivo prioritario dell’Europa federale debba essere quello di perseguire “una piena occupazione equamente retribuita in tutti i paesi che hanno aderito alla moneta unica”, con quali strumenti è possibile raggiungere tale obiettivo? In primo luogo nella UE, diversamente dagli USA, manca un policy maker sovrannazionale in grado di attuare misure di politica fiscale espansive per quei paesi nei quali la disoccupazione sta raggiungendo livelli tali da compromettere la pace sociale. Inoltre, i regimi fiscali dei singoli paesi sono difformi e non esiste alcun meccanismo istituzionale in grado di effettuare la redistribuzione tra i paesi dell’eurozona dei vantaggi derivanti dalla moneta unica. Per quanto attiene poi alla politica monetaria, vale innanzitutto la pena di tenere ben presente quanto stabilisce l’art. 105 del Trattato di Maastricht, per il quale “(l)’obiettivo principale del SEBC [il Sistema europeo delle banche centrali cui spetta il compito di definire e attuare la politica monetaria] è il mantenimento della stabilità dei prezzi”. Ora, è vero che in subordine e, fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC può sostenere “le politiche economiche generali nella Comunità al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi – invero assai generici – definiti nell’articolo 2”.  Ma in che modo e con quali strumenti la BCE, alla quale spetta la funzione di assicurare che i compiti del SEBC vengano assolti, può a sua volta adempiere il suo compito? Sostanzialmente con il solo strumento della determinazione del tasso d’interesse, il valore del quale è strettamente legato alla quantità di moneta in circolazione.

Non è il caso, in questa sede, di approfondire le modalità con le quali la BCE esercita il controllo della quantità di moneta in circolazione al fine di assicurare la stabilità dei prezzi. Bastino due sole osservazioni: tale controllo viene esercitato a posteriori, vale a dire quando l’aumento dei prezzi (l’inflazione), misurato da un indice che rappresenta la media dei tassi d’inflazione dei paesi della UE, o la deflazione (che è il contrario dell’inflazione), si è già manifestato; inoltre, in un contesto sempre più dominato dall’economia finanziaria, come già ebbe ad evidenziare John Maynard Keynes negli anni ’30 nel suo “Trattato sulla moneta”, e ancora recentemente ribadito in uno studio della Banca d’Inghilterra,  le banche centrali stanno incontrando sempre maggiori difficoltà nell’effettivo controllo della quantità di moneta in circolazione (e, conseguentemente, per suo tramite, nel controllo dell’inflazione).

In conclusione, il modo in cui la politica economica è stata pensata e disegnata dal Trattato di Maastricht solleva forti dubbi, non solo sulla capacità della BCE di perseguire l’obiettivo (ancorché in subordine rispetto a quello prioritario) di fronteggiare la disoccupazione, ma persino sulla effettiva capacità del SEBC, al cui interno la BCE assume un ruolo predominante, di perseguire l’obiettivo prioritario di assicurare la stabilità della moneta assegnatogli dal Trattato.  Pertanto, se l’euroscetticismo nei confronti della moneta unica è privo di qualsivoglia giustificazione, quello sull’Unione Europea e sul suo futuro, a meno di una significativa e tempestiva svolta in senso federalista, appare per contro ampiamente giustificato.

E’ vero che, come da più parti si auspica, per rilanciare il processo federalista occorre “abbandonare l’ottica dell’austerità” in favore di una politica volta a rilanciare la domanda interna, ma a mio avviso occorrerebbe uscire dalla trappola della politica fiscale lasciata alla competenza degli stati nazionali, armonizzando i sistemi fiscali e creando un’entità sovrannazionale in grado di gestire un bilancio proprio della UE e quindi la politica fiscale comunitaria. Oltre a ciò, si impone un ripensamento sulle fondamenta teoriche della politica monetaria orientata alla stabilità dei prezzi. Se queste, e non solo quelle della liberalizzazione del mercato del lavoro, sono le “riforme” di cui si chiede a gran voce l’attuazione, ben vengano. E se ciò dovesse comportate una revisione del Trattati, l’imminente assunzione di responsabilità di Matteo Renzi, nel semestre nel quale si appresta a guidare il Consiglio europeo, sarebbe l’occasione per imprimere una accelerazione al processo di unificazione europea. Ma dubito fortemente che ciò accada. Anzi, temo che ci si limiterà, come è emerso nei giorni scorsi durante l’incontro dei leader di nove paesi europei a guida socialista e socialdemocratica, a chiedere una maggiore flessibilità nell’applicazione delle regole del Patto di Stabilità. Non vorrei che in tal caso il futuro dell’Europa finisse per essere caratterizzato da una bassa crescita economica e dal declino demografico. Ne seguirebbe l’acuirsi delle tensioni sociali e un lento e progressivo indebolimento dell’Unione Europea stessa: un processo che potrebbe condurre anche all’implosione della moneta unica. Uno scenario che, stante l’evoluzione geopolitica in atto nei paesi africani ed euroasiatici, che vede l’affermazione dell’estremismo islamico, lascia intravvedere sullo sfondo, se non proprio quello “scontro delle civiltà” profetizzato da Samuel P. Huntington, un futuro a dir poco inquietante.