Note su Panico di Lorenzo Calza
Come a suo modo ci ha ricordato il recente Snowpiercer di Bong Joon-ho, grumo infernale di vagoni in perpetuo movimento in una Terra quasi morta, il treno è uno dei più funzionali contenitori di storie e di frammenti non solo di genere tanto al cinema che in letteratura.
Nella mia lacerata memoria di anarchico cinefilo si affastellano troppi titoli a tutto tondo ed episodi parziali “di passaggio” all’interno di un treno; in ordine rigorosamente casuale e niente affatto cronologico, Horror Express di Eugenio Martin (la Cosa in viaggio), Terror Train di Roger Spottiswoode (serial killer mascherato a bordo), Le cinque chiavi del terrore di Freddie Francis (il filiforme dottor Shock nello scompartimento), L’imperatore del Nord di Robert Aldrich (crudele sfida tra capotreno e imboscato sul merci), L’ultimo treno della notte di Aldo Lado (ovvero L’ultima casa a sinistra su ruote motrici), Cassandra Crossing di George Pan Cosmatos (treno con virus mortale), Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet (Agatha Christie), Trans-Europ-Express di Alain Robbe-Grillet (giochi della mente tra Parigi e Anversa), A 30 secondi dalla fine di Andrej Končalowskij e Unstoppable di Tony Scott (treni lanciati a folle velocità ma senza freni), Source Code di Duncan Jones (fantascientifici paradossi temporali su un treno destinato a esplodere), Train de vie di Radu Mihăileanu (finto treno di autodeportazione) e Transsiberian di Brad Anderson (treno snuff tra Russia, Mongolia e Cina).
A questi potremmo aggiungere lavori meno noti come Train di Gideon Raff (remake di Terror Train), il delirante Amok Train di Jeff Kwitny (il diavolo in persona sta nella carrozza matrice), il coreano Death Train di Dong-bin Kim (scompartimenti infestati da fantasmi), l’action thriller Night Train di Brian King e il primo episodio della serie Storie incredibili dal titolo Ghost Train. Qualche libro ad hoc (L’ultimo treno della notte di Benjamin Lebert, Treno di notte di Howard A. Rodman, La stazione del Dio del Suono, da me compilato, Il Popolo dell’Autunno di Ray Bradbury per quelle locomotive che trasportano per l’America la genìa malefica di Mr. Dark e l’ineguagliabile graphic novel Quel treno per l’inferno di Joe Lansdale). Per finire, importanti frammenti autoriali quali il finale di 007 dalla Russia con amore di Terence Young, la lunga e ottima scena del primo omicidio su vagone in Nonhosonno di Argento e l’indimenticabile, malizioso “the end” di Intrigo internazionale del maestro Hitch.
Il tutto a rinfrescare memorie e a ribadire che il treno funziona. Come hanno funzionato le diligenze (non a caso si parla ancora di film-diligenza), le case assediate da ogni punto cardinale e da chiunque, le panic room e i Dakota Building, gli Airport e i Bus. Ambienti claustrofobici, stanziali o in movimento. Funziona alla grande, il treno, perché è un assemblatore di vite sul filo del rasoio e perché, spesso a dispetto degli autori, una metafora efficace della vita, laddove si declina che non è la destinazione a pesare, ma il viaggio stesso. Treni romantici, satanici, agglomerati di carne e di lamiere. Persino un ghost train ideato dal compianto Hans R. Giger e solo abbozzato perché mai utilizzato a Hollywood. Vite che collidono, che finiscono o che riprendono da capo. Esperienze ai confini della realtà, anche nella vita: fu proprio quando, diversi anni fa, un treno locale della tratta Genova-Alessandria con me a bordo (una vera e propria diligenza su ruote) si fermò a Piano Orizzontale dei Giovi, che scoprii la più piccola e parimenti deliziosa stazione di montagna mai vista in vita mia. E abbozzai nella mente che quella sarebbe divenuta la Stazione del Dio del Suono.
Lunghissimo cappello introduttivo, ma Panico di Lorenzo Calza lo richiede. Si tratta di uno dei più importanti romanzi di genere degli ultimi anni, soprattutto perché è de-genere. Il pretesto narrativo è degno di un episodio di Ai confini della realtà: un treno entra in una galleria e dopo poche pagine, grazie alla percezione soggettiva del narratore protagonista, ci rendiamo che la galleria non finisce. Anzi, si capisce bene che è destinata a non finire. Nel microcosmo del vagone-set ne succederanno un po’ di tutti i colori ma alla fine il colore prevalente è un nero, citando al contrario i Procol Harum, più oscuro del Nero stesso. Perché, come attesta Calza, il buio è l’unica sicurezza per rimanere vivi.
Un treno che forse nessuno guida e che forse è il simbolo, sospeso tra metafisica e materia, di un’essenza demoniaca che Lorenzo fotografa da par suo in due folgoranti istantanee: “la locomotrice, col suo grido femminile, acuto, che ben distingue dal rombo maschio del treno”, e “la testa del serpente staccata dal corpo un’entità a sé stante rispetto al resto”.
Come ogni mistero che si rispetti, ci sarà, se non una spiegazione, ma una fine, e dopo avere passato in rassegna ogni ipotesi pseudoscientifica e di genere ed essere transitati tra lotte brutali all’ultimo sangue, ragni giganti, incubi e amplessi, la conclusione arriva; ma la bravura di un autore – e Lorenzo è autore straordinario – consiste anche nel prolungare angoscia e aspettativa anche dopo l’ultima frase. Immagini ed echi di rara suggestione: l’incrocio visivo con un altro treno, copia speculare di quello protagonista, in cui gli occupanti vedono sé stessi sfrecciare dalla parte opposta in senso contrario (“la nostra storia recente, fatta di realtà e visioni, ci stava scorrendo al fianco”…) e la percezione, continua e ossessiva, della “musica”- Tu Tum Tu Tum – prodotta dallo sferragliare delle ruote sui binari.
Un testo che mantiene che quel il titolo promette. Panico, di sicuro una delle costanti emotive di questa strana vita in questo mondo ancora e sempre più strano.