Ogni città è un insieme di case, strade, piazze, binari dei tram e negozi, il tutto cucito insieme dalla storia che l’ha vista protagonista, dai gusti e dalla cultura che ne hanno attraversato i secoli fino a quella più contemporanea. E a far vivere tutto ciò sono le speranze, le illusioni e a volte anche la rassegnazione di chi la abita. Direi anche la voce, le gambe e i piedi delle persone che la percorrono in lungo e in largo riempendola con l’energia di tutta una collettività.
Alessandria è una città affascinante, nonostante i suoi cittadini, primi fra tutti, l’abbiano consacrata al dio del grigio. Che sia la nebbia o la squadra degli orsi, piuttosto che la lama d’acciaio intrisa di ironia con cui andiamo incontro alla vita. Ma questo non è necessariamente un male. Anzi. Il grigio è un classico e si porta con tutto.
A volte basta un raggio di sole di mezzogiorno per far riscoprire (una fra tante) via Ferrara, con le sue tende tirate, le vetrine e l’odore di pane fresco o quello di rosticceria. Una di quelle vie dove, quando si va a gironzolare per il mondo, ci fermeremmo volentieri a un tavolino per un pasto o anche solo per vedere passare la gente. Peccato però arrivare fino in fondo e avere di fronte agli occhi lo spettacolo poco edificante del palazzo di città.
Il municipio, Palazzo Rosso, quello delle autorità, l’emblema della nostra rappresentanza collettiva. Il nostro comune. Con quello che significa la parola comune nella storia della nostra nazione. Uno sfacelo. Infissi marci, facciata scrostata, cortili quasi in disuso. All’interno, non so. Non sono solito frequentare l’ambiente. Ma non oso pensare.
Oppure Piazza Santa Maria di Castello, la chiesa che richiama le nostre origini come città. Una piazza ovale delle migliori tradizioni architettoniche. Un palazzo (di cui non so nulla, né epoca, né proprietà) che appare completamente abbandonato a se stesso. Come pure il Chiostro. Basta guardarlo per capire che necessita di cure ben più appropriate di una semplice aspirina. Una piazza che dovrebbe rappresentare un momento di pace, un’immersione nel silenzio. Un luogo sospeso nel tempo ridotto a ospitare poche macchine posteggiate su un asfalto vergogna del mondo per incassare un pugno di quattrini.
Basta girare nel borgo Rovereto per riscoprire il gusto delle case e dei cortili, per riuscire a dimenticare per un istante le brutture architettoniche che hanno rubato terra alla campagna. Una cinta muraria legittimata da speculazioni edilizie insensate, votate alla nascita di immensi quartieri. O che, singole strutture erette all’interno dell’area urbana storica, soffocano palazzine di cui nessuno pare curarsi ma il cui valore artistico abbaglia. Basta girare con un po’ di calma e curiosità e il contrasto emerge in centro come in Pista, al Cristo o agli Orti.
Certo si tratta di un processo che ha stravolto ogni realtà, dal paesino alla metropoli. Nessuno è rimasto immune dal desiderio di distruggere il bello che ci è stato consegnato dalla storia del passato. Ma questo non deve impedire di chiedere conto di questo degrado a chi ha governato la logica edilizia alessandrina (sia in veste pubblica quanto privata) in questi ultimi trent’anni.
Perché se queste sono le condizioni in cui ci veniamo a trovare le responsabilità non possono essere imputate ad una amministrazione piuttosto che a un’altra. Non è un problema di crisi che ci attanaglia da qualche anno. E’ il risultato di una commistione letale di interessi e di ignoranza che sta portando alla sopravvivenza del nostro centro storico quanto dei nostri giardini.
Oltre all’omicidio del mercato coperto di via San Lorenzo, di Corso Roma e alla sepoltura del ponte sul Tanaro. Solo per accennare alle cose più eclatanti.
Oltre il grigio esistono sempre un paio di scelte. Le tenebre o la luce. E magari siamo ancora in tempo a non sprofondare del tutto.