«Questione de nummeri»

Soro Bruno 2di Bruno Soro

“Conterò poco, è vero:
– diceva l’Uno al Zero –
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso vôto e inconcrudente.
Io, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
E’ questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.”

Trilussa (1944), “Nummeri”, Mondadori, Milano 2000

Quando, nell’agosto del 1992, ho avuto la fortuna di viaggiare attraverso le più importanti città e luoghi della Cina, non esisteva “la quarta tangenziale”, né tanto meno “le sette di oggi”, di cui parla il caporedattore finanziario del Wall Street Journal, e editorialista di La Stampa, Francesco Guerrera, nell’articolo nel quale commenta “Il gioco sottile” dei due grandi dell’economia mondiale, Cina e Stati Uniti (La Stampa, 15 maggio 2014). Ventidue anni fa quel paese stava appena iniziando a uscire dal declino economico nel quale l’aveva precipitata l’ideologia della cosiddetta “Rivoluzione culturale”.

Sia chiaro: non ho alcuna intenzione di entrare nel merito della valenza culturale e storica di quella fase della storia cinese, non possedendo competenza alcuna in questo campo. Resta però il fatto, e questo è inoppugnabile, che stando ai dati messi a disposizione dalla Banca Mondiale, nel ventennio 1962-82 la potenza economica della Cina, misurata in termini di prodotto interno lordo (Gross Domestic Product, o GDP nella terminologia anglosassone), è scesa dalla sesta alla decima posizione nell’ambito delle prime dieci potenze economiche a livello mondiale (Big Ten). Una posizione che ha mantenuto anche nel decennio successivo, salvo poi, in soli dieci anni, passare dal decimo al quinto posto, fino a risalire, tra il 2002 e il 2012 alla seconda posizione subito dopo gli Stati Uniti.

Per inciso: l’economia italiana ha seguito un percorso esattamente simmetrico, scendendo, tra il 1962, quando era la quinta potenza economica mondiale, e il 1982 al sesto posto, per iniziare poi quel rapido declino che l’ha portata ad occupare nel 2012, essendo stata nel frattempo superata dal Brasile e dalla Russia, la nona posizione nella graduatoria dei Big Ten (fuori dal G8, tanto per intenderci).

In uno studio di qualche settimana fa, promosso dall’International Comparison Programme (ICP) della Banca Mondiale e volto a fornire le stime del GDP espresseCina States in una misura comune denominata “dollaro internazionale” – un indice che consente di tenere conto del diverso potere d’acquisto del dollaro nelle singole economie -, si prevede che il colosso cinese riuscirà a superare la potenza economica degli Stati Uniti già nell’anno in corso, diventando così la prima potenza economica mondiale. Guerrera, nel suo articolo, solleva alcuni dubbi sul significato politico di quella notizia, e ne contesta la validità, poiché, scrive, “se l’ICP ha ragione, saremmo di fronte ad un momento storico, un passaggio di consegne dall’Ovest all’Est che confermerebbe il declino degli USA e l’ascesa ormai inesorabile della Cina come strapotenza economica”. Dopo avere rammentato che “l’influenza degli Stati Uniti sul resto del mondo è più grande persino dell’economia USA e né la Cina, né l’Europa possono pensare di contrastarla nei prossimi anni”.
L’osservatore del Wall Street Journal ha sicuramente ragione sul piano della politica, ma ha torto su quello dell’economia. Vediamo perché.

Come sanno i cultori dell’Economia dello sviluppo, i primi studi comparativi sull’importanza delle singole economie datano dai primi anni ’60 del Novecento, limitatamente a una decina di paesi per i quali esistevano sistemi di contabilità nazionale sufficientemente omogenei. Il limite di quei confronti consisteva nel fatto che i valori della produzione, espressi nelle monete locali, venivano resi uniformi utilizzando il dollaro statunitense quale moneta comune e ciò dava luogo a due effetti distorsivi: l’applicazione di un tasso di cambio “medio” tra le monete e il dollaro (ad esempio la media dei tassi di cambio degli ultimi tre anni) e la diversa capacità d’acquisto del dollaro USA in relazione allo stadio di sviluppo dei paesi oggetto del confronto. Per superare queste limitazioni, le organizzazioni internazionali hanno promosso l’International Comparison Programme (ICP), un progetto avente proprio lo scopo di elaborare una metodologia in grado di rendere confrontabili i dati del GDP relativamente al maggior numero possibile di paesi.

Questa metodologia, che ha richiesto inizialmente l’impegno di un folto gruppo di studiosi e che ha lavorato per oltre quindici anni per la sua predisposizione, consiste in una mastodontica raccolta d’informazioni sul sistema dei prezzi in vigore nelle singole economie, raccolta che, opportunamente elaborata da potenti calcolatori con metodi statistici, consente la costruzione di un indice spaziale (una sorta di sistema dei prezzi “medio”), con il quale i valori del GDP di ciascun paese viene ricalcolato in base a quello standard comune. L’applicazione più recente, resa nota dalla Banca Mondiale alla fine di aprile scorso (l’ultima versione risale al 2007 e si basava sui prezzi del 2005), fa riferimento al sistema dei prezzi in vigore nel 2011 in ben 133 paesi, il GDP di ciascuno dei quali è stato ricostruito in base al “dollaro internazionale” riferito a quello stesso anno. Applicando poi ai valori della produzione così ottenuti i tassi di crescita riscontrati nel periodo coperto dall’indagine (tra il 2002 e il 2012 l’economia cinese è cresciuta a un tasso annuo medio del 10,3%, e quello degli USA è stato dell’1,8%), diviene possibile stimare il valore del GDP per l’anno che interessa: nel nostro caso il 2014.

Cina bandieraEd ecco spiegato il “sorpasso”: poiché con la metodologia dell’ICP l’economia cinese, nella quale prezzi e salari sono più bassi della media, esce fortemente rivalutata, mentre quella degli USA, nella quale salari e prezzi sono più alti della media, è ribassata, tenendo conto dei rispettivi tassi di crescita, si prevede che la Cina supererà la potenza economica degli Stati Uniti già nell’anno in corso.

Con tutto ciò, non intendo affatto sostenere che quei dati siano privi di significato, dico soltanto che essi vanno presi per quello che sono: degli esercizi numerici che forniscono informazioni che vanno opportunamente interpretate. La notizia, così com’è stata riportata sui quotidiani del 1° maggio (e ripresa da Guerrera), ha la sua importanza strategica. Essa, tuttavia, è solo una mezza verità. Valutata in un contesto più ampio, viene fuori un quadro dell’economia globale assai differente. Stando ai dati riportati sul Word Development Indicators (WDI) del 2013, la più consistente banca dati messa a disposizione dalla Banca Mondiale, e con riguardo ai valori dei GDP espressi in dollari statunitensi, l’Unione Europea, con il 23% della produzione mondiale, è la prima potenza economica, seguita a ruota, con il 22,4%, dagli Stati Uniti. Vengono poi i 18 paesi dell’Eurozona (con il 19,6%), la Cina, che con l’11,3% della produzione mondiale ha una potenza economica che è circa la metà di quella degli Stati Uniti, il Giappone (con l’8,2%), la Germania (con il 4,7%), la Francia (con il 3,6%), il Regno Unito (con il 3,4%), il Brasile (con il 3,1%) la Federazione Russa e l’Italia (con il 2,8%). Inoltre, l’Unione europea è il primo esportatore a livello mondiale (ancorché con una bilancia commerciale deficitaria), seguita dalla Cina (con una bilancia commerciale positiva) e dagli Stati Uniti (anch’essi con una bilancia commerciale fortemente deficitaria). Dal 2013, infine, non solo la Cina ha superato gli Stati Uniti quanto a potenza commerciale (importazioni più esportazioni), ma avendo superato in quello stesso anno l’euro, la moneta cinese, lo yuan, è divenuta la seconda valuta più importante al mondo dopo il dollaro statunitense.

Quanto sopra attiene ai valori assoluti, che hanno un significato simbolico (la potenza demografica, quella economica e/o commerciale, la potenza valutaria), ma sono viziati da un errore di dimensione. Se prendiamo in considerazione, ad esempio, la potenza demografica, la Cina, dall’alto del suo miliardo e 344 milioni di abitanti è indiscutibilmente la prima potenza demografica, seguita dall’India (un miliardo e 141 milioni), dall’Unione Europea (550 milioni) e dagli Stati Uniti (312 milioni). Se ogni cinese producesse uno spillo, la produzione di spilli supererebbe quella degli Stati Uniti più di quattro volte. Quindi la dimensione conta, ma conta anche la capacità di produrre (la produttività del lavoro, che riflette lo stadio di sviluppo raggiunto, il capitale accumulato e la diffusione della tecnologia). Per questo motivo i confronti internazionali vengono solitamente effettuati utilizzando un indicatore di densità: il prodotto pro capite (o GDPPC nella terminologia anglosassone). Questo indice esprime la capacità di spesa media di un abitante del sistema economico e, stando a questo indicatore, il GDPPC degli Stati Uniti è otto volte quello della Cina (valore che si riduce a sei con riguardo all’Eurozona e a 5 con riferimento all’Unione Europea). Pertanto, quand’anche la Cina continuasse a crescere ai ritmi attuali, cosa peraltro impossibile (poiché man mano che si avvicina al reddito pro capite dei paesi industrializzati il suo tasso di crescita tenderà inevitabilmente a ridursi), occorrerebbero non meno di ventidue anni per raggiungere il livello degli Stati Uniti (e poco meno di diciannove per raggiungere quello dell’Eurozona). Possiamo allora stare tranquilli? Niente affatto.

Vi siete mai chiesti perché, nonostante l’Unione Europea, che ha la totale competenza (sottratta agli stati nazionali) sia in materia commerciale che valutaria, non sia nemmeno citata quale potenza commerciale e valutaria? Semplicemente perché, come il calabrone, che stando alla sua forma aerodinamica non dovrebbe volare, l’Unione Europea e l’Eurozona nonostante i macroscopici difetti con in quali si è proceduto alla loro formazione, esistono, producono ed esportano più degli USA, esportano quasi quanto la Cina, e l’euro è la terza potenza valutaria a livello mondiale. Non si può negare, peraltro, che il baricentro economico si stia rapidamente spostando da Ovest ad Est (ai tassi di crescita attuali l’India, la seconda potenza demografica, in meno di due anni avrà superato la potenza economica dell’Italia). Stando ai cambiamenti in atto, la sola possibilità di possedere un qualche titolo (e avere un voce in capitolo) negli scambi internazionali, dai quali dipende la prosperità o l’impoverimento delle potenze mondiali, occorrerà superare l’ottica della supremazia individuale (l’interesse dei singoli stati nazionali) in favore di un’ottica di cooperazione tra pari: Stati Uniti, Europa, Cina, India, Federazione Russa, Brasile e così via. Una dimensione nella quale le economie nazionali o si aggregano o sono destinate a soccombere. Ma ciò corrisponde, quasi alla lettera, a quanto John Maynard Keynes ebbe ad auspicare quando, deluso dall’andamento delle trattative condotte nell’ambito della Conferenza di pace di Parigi del 1919 in rappresentanza della Gran Bretagna, dopo avere abbandonato la Conferenza, si rifugiò nella sua casa di Tilton, e in pochi mesi diede alle stampe quel capolavoro di diplomazia, prima ancora che di economia, che è il suo “Le conseguenze economiche della pace” (Adelphi Milano 2007). Chiunque abbia voglia di leggere il libro vi ritroverà la sua funesta previsione: “Il rovinoso dissesto dell’Europa, se non vi poniamo un freno, a lungo andare colpirà tutti; ma forse non subito e in modo traumatico. (…) Forse abbiamo ancora il tempo di riconsiderare la nostra condotta e di vedere il mondo con occhi nuovi. Saranno gli eventi a determinare l’immediato futuro, e il destino prossimo dell’Europa non è più nelle mani di questo o quell’uomo. Gli sviluppi dell’anno venturo non saranno forgiati dagli atti deliberati degli statisti, ma dalle correnti nascoste che incessantemente fluiscono sotto la superficie della storia politica, e il cui sbocco nessuno può prevedere”. Keynes fu facile profeta: pochi anni dopo il nazismo ed il fascismo avrebbero trascinato il mondo nella seconda guerra mondiale.

Riflettano quanti, non senza qualche ragione, sono tentati dall’astensionismo in occasione delle imminenti elezioni del Parlamento europeo. O coloro i quali, a torto, ritengono che “si stesse meglio quando si stava peggio”.