Sono trascorsi 40 anni da quel giorno, da quel 9 e 10 maggio del 1974, da quelle drammatiche 36 0re che hanno stretto il carcere Don Soria nella morsa di una drammatica rivolta messa in atto da tre detenuti armati. Allora io non ne avevo ancora compiuti 20, ero sotto esami al primo anno di università e l’ultima cosa che avrei potuto immaginare era che il 2014 sarebbe arrivato con tanta fretta. Se quel giorno, anziché fare i conti con una cronaca nera dalle forti implicazioni politiche, qualcuno mi avesse narrato una storia avvenuta 40 anni prima, ovvero nel 1934, avrei ascoltato con giusta curiosità ma con quel distacco che segna il confine tra due epoche.
E’ per questo che oggi diventa difficile raccontare a chi non c’era, a chi non sa, a chi non interessa sapere. A chi non vuole e non ha mai voluto chiedere. A chi non è in grado di dare un senso a quanto accaduto se non classificandolo tra le pieghe della storia. Dopo 40 anni la conoscenza passa attraverso un valore razionale. Quello emotivo resta a chi ha visto quei giorni scorrere con tutte le implicazioni del caso, fatta di paura, di sdegno, di pietà e di rabbia. Un mix che difficilmente può essere comunicato con una semplice rievocazione.
A questo occorre aggiungere che i 40 anni non sono passati solo per me, ma pure per una città rimasta immobile di fronte a momento di cui è stata protagonista, e che non può essere considerato solo una disgrazia di casa nostra. 7 i morti, a cui si aggiungono i troppi aspetti mai chiariti e un silenzio a tratti incomprensibile, a volte da leggere come una sorta di velo pudico utile a non tormentare ulteriormente i cuori e i cervelli. Sette morti e quindici feriti per garantire il senso dello Stato. Cinque vittime innocenti di una guerra non voluta da loro, e una verità sfumata insieme ai gas lacrimogeni e alla rabbia e alle lacrime di una folla infinita che rese loro un doveroso omaggio, dimostrando che quella strage aveva lacerato il cuore di una città intera.
L’intestazione di alcune vie cittadine (il paradosso chiede pegno e le vie sono collocate nelle aree di peggior nomea, simbolo del fallimento di un progetto urbanistico che avrebbe dovuto essere il fiore all’occhiello del Cristo) resta a testimonianza di uomini e donne morte nel nome di una violenza senza senso, apparsa come la sola strada d’uscita, da un lato, per conquistare una libertà non dovuta, dall’altra per non permettere che questo loro progetto si avverasse.
Oltre a una vicenda dai contorni foschi, come le nebbie di una città che non ha voluto renderne partecipe le generazioni successive. Forse ci siamo persi un’occasione preziosa per insegnare loro che, se è vero che a volte dobbiamo fare i conti con la follia criminale, è altrettanto vero che esiste una differenza netta tra autorità e autorevolezza. E che la forza è saggezza, come sostenevano i filosofi dell’antichità, buon senso, lucidità intellettuale e morale, e non solo un fronte di fuoco dietro il quale trovare riparo.