Spesso e volentieri mi si chiede di redigere dotte nonché retoriche dissertazioni sul genere che frequento (e chiamiamolo horror, giusto per semplificare). Spesso e volentieri non voglio deludere i richiedenti, ma qui confesso che alla mia età, dopo un sacco di libri più o meno visti o altrettanto venduti (ma soprattutto scritti e sofferti), la voglia di rimettermi in gioco a ogni piè sospinto in quanto critico, teorico o – peggio – Grande Vecchio del gotico, proprio non c’è più, nemmeno a grattare in fondo alla tinozza alla ricerca del mitico e alchemico tartaro di botte.
Dico la verità: è una voglia che è stata uccisa e gli assassini sono più di uno, leggi le sirene del mercato e del marketing che hanno fatto bere a migliaia di persone un dolce calice nel quale si spaccia un intruglio che non ha nulla a che fare con l’horror, ma si riesce a filtrare con il gioco mimetico delle maschere. A seguire, in ordine sparso, le difficoltà intrinseche dei veri rappresentanti del genere a far capire al sistema di che scrivono (al punto che più di uno si è sentito proporre – manco ci trovassimo ancora ai tempi di Bob Robertson/Sergio Leone – di cambiare il proprio nome e cognome in corrispettivi anglosassoni… Dan Aaron peraltro suona bene e suonava ancora meglio a Elvis).
L’endemica volatilità di un pubblico di lettori “forti”. E, per finire, il destino triste di collane e case editrici che ci hanno seriamente provato e, per restare in vita, hanno dovuto aggiustare di molto il tiro. Ma poi ci sono morte. E non trovo nulla da obiettare, credetemi. Il lavoro deve mantenerci in vita. Se non ce la fa, si aggiusta il tiro o si chiude.
Ma allora?
Beh, intanto una pagina se ne è già andata, e non è poco. Scherzo, non mi sottraggo. Però concedetemi di tornare a un’epoca in cui andavo giù abbastanza pesante, e non da solo, sulle teoriche applicate. Più o meno, una decina di anni fa. Se ne discuteva soprattutto fra amici, sodali e consimili. Uno di questi, grande maestro italico del genere, Gianfranco Nerozzi, stava curando una grandiosa antologia per Urania Mondadori (grandiosa per noi coinvolti in prima persona, ça va sans dire…) che si sarebbe intitolata In fondo al nero. E proponeva agli autori coinvolti un po’ di sana teoria collaterale per fiancheggiare l’operazione. In un file che conservo gelosamente nel mio archivio (ormai una sorta di babelico cimitero elettronico dal quale spesso schizzano fantasmi virali che vanno in giro a infettare altrui computer – e non scherzo affatto, abbiate fede!) e che s’intitola Contagio del Nero, il nostro aveva riversato con il suo consueto acume una vera e propria caterva di spunti di riflessione intorno e dentro il genere: dai nostri romanzi, nostri perché di “scuola” italiana, che dovevano essere programmaticamente Chimerici (non solo gialli, non solo horror, non solo noir, non solo polizieschi e neppure fantascientifici) con chiavi di lettura molteplici perché virali.
Genialmente definiti “romanzi-mutazione” perché poi la mutazione è la base stessa dell’horror e di ogni espressione artistica in genere. Romanzi con all’interno patologie occulte, malattie nascoste dentro ad altro su un confine imprecisato tra il visibile e l’invisibile (The Twilight Zone), quasi che il genere potesse anticipare nel 2003 certe coraggiose inchieste del medico “contro” Stefano Montanari (giusto per capire il riferimento, andatevi a leggere di Montanari Il Girone delle Polveri Sottili – Viaggio nel mondo delle nanoparticelle). E poi ancora soglie da superare per portare chissà dove il limite della sopportazione immaginativa. La ricerca del disgusto, che allora caratterizzava lo Splatterpunk. La rappresentazione cruda del male.
L’horror, citando il Nero alla lettera, “come una sorta di strumento endoscopico per capire come siamo fatti dentro, per scoprire l’oscurità: la sua sostanza nascosta, e predisporci a stringere in pugno un minimo di luce, vedere a che stadio è la malattia che ci occupa il cuore.” Ah, bei tempi, quelli dei “nerofondisti” con Gianfranco che già da tempo aveva smesso di chiamarsi Frank J. Crawford…
Ringalluzzito da quella musica che girava intorno, ma anche turbato nel profondo per quel che accadeva sulla Terra dopo l’attentato alle Torri Gemelle, avevo proposto – in contemporanea su Horror. IT e su Carmilla On Line – un tormentone da mezzo quintale che riguardava “l’horror e la guerra” e che partiva così: «E’ vero che l’horror, a differenza di quanto sta accadendo da tempo in ambito fantascientifico, possiede tanto un naturale bavaglio culturale quanto l’innata incapacità di tuffarsi nel presente per denunciarne l’orrore e l’assurdità? E’ vero che il gotico contemporaneo è poi alla fine, dopo mille dibattiti e riformulazioni del medesimo, null’altro che entertainment, vuoto e irrilevante quanto la commedia alla Neri Parenti?»
Ovviamente non era vero. E giunsero alle redazioni anche belle e produttive lettere con adeguati e proficui scambi di opinione. Io citavo Blatty, Peter Straub e William Lustig, ma pure Evangelisti, Tonani e Colombo come esempi palpabili di genere che si occupava, anche e soprattutto, delle magagne del mondo reale. La guerra, il terrorismo, gli scontri fra civiltà e persino la crisi che allora non c’era ma già s’intravedeva: quelle cose lì, insomma. E pareva proprio che l’horror italico fosse sul punto di spiccare un volo di assoluta qualità non dico per sfondare, ma soprattutto per posizionarsi in certe zone dell’immaginario collettivo tanto utili e funzionali per i signori del marketing che poi avrebbero dovuto stabilire a tavolino le modalità, i personaggi, gli autori, etc, etc, etc…
Invece non accadde nulla. Ed è ovvio che, senza andare a nasconderci dietro un dito, ognuno degli addetti ai lavori o dei chiamati in correità non abbia da tirarsi indietro, attribuendo magari colpe ad altri perché il genere ancora non ha mai forato la diga. Anche perché probabilmente non ci sono colpe. Ognuno – parlo ovviamente per l’autore che sono e per quelli che mi onoro di conoscere de visu – ha fatto del suo meglio. Se poi non si sono trovate adeguate sponde editoriali e/o i risultati si sono rivelati al di sotto delle aspettative, questo è ancora dovuto allo strambo mix di concause accennate più sopra, all’interno del quale è piombata come un macigno pure quest’ambigua e del tutto sospetta crisi economica. Ma non sto a ricamarci ancora perché scantonerei sul serio alla grande. Piuttosto, eccomi a constatare che, mentre l’horror italico è stato costretto al palo dall’ufficialità editoriale di contro a una straordinaria effervescenza nell’underground tra piccole ma valorose realtà, gli anglosassoni invece non si sono fatti mancare proprio nulla e sono, guarda caso, andati avanti lungo quel percorso di “incisione sul reale” abbozzato dai nerofondisti italici del 2003.
Penso soprattutto a titoli come Cover di Jack Ketchum, a The Conqueror Worms di Keene, a Nell’abisso profondo di Piccirilli, a Deadfall Hotel di Steve Resnic, Virus di Sarah Langan, alla saga zombie di Jonathan Maberry, a Whisper of Southern Lights di Tim Lebbon, a Sparrow Rock di Nate Kenyon, a Solomon’s Grave di Daniel F. Keohane e a Dark War di Tim Waggoner. Titoli che, ognuno a suo modo, ci raccontano del malfermo stato di salute della psiche planetaria, della condizione di belligeranza permanente che sta invadendo ogni angolo della Terra, dell’odio verso il diverso e via declinando. Elenco che potrebbe essere ancora più lungo, ma presumo che il senso del discorso sia stato ampiamente compreso. Finché in Italia si continuerà a pensare che l’horror debba essere un genere staccato dal mondo reale, da utilizzarsi come Terra di Mezzo per dimenticare le angosce del quotidiano, per noi italiani convinti del contrario sarà una lotta dura, anzi durissima per quanto divertente. Perché, dicendola proprio con Jack Ketchum, l’autentico scrittore horror non deve girare la testa da un’altra parte di fronte al Male.
«Credi di sapere cosa sia il dolore?», così Jack apriva La ragazza della porta accanto… Ecco, camminiamo su questo pianeta e non su un altro.
Camminiamo, citando Gianfranco, in fondo al nero.