Di calcio e di altri dèmoni [Calcio a colori]

Spiderdi Spider Jerusalem

Nell’appoggiare a terra sul dischetto del rigore il pallone, Ettore non potè fare a meno di rimanere sorpreso dalla incredibile perfezione della forma, risultato di otto pannelli curvi termosaldati a formare un motivo di undici colori proprio come il numero di calciatori di una squadra. Si fermò a ripensare alle modifiche che dovevano avere subito i palloni da quello che aveva calciato il suo bisnonno, una camera d’aria di gomma ricoperta da dodici strisce di cuoio per mantenerne la forma, a quello con cui lui stava per decidere una partita che valeva non solo un campionato, ma forse una vita intera.

Gli ripassarono in mente inevitabili i racconti dei suoi nonni legati ad una rivalità che non era solo calcistica ma personale, e che aveva vissuto molti alti e bassi fino a trascinarsi in questa quinta generazione di calciatori che avrebbe finalmente decretato la definitiva rivincita dei Merlo.

C’era chi era partito in guerra e si era salvato per la sua capacità di palleggio, chi per convincere il delegato di Lega a concedergli l’agibilità del campo aveva affittato l’erba per ricoprire il ghiaino il tempo necessario alla visita ufficiale, chi aveva fatto del calcio uno strumento di lotta sociale e chi non aveva i soldi per una maglia ufficiale del proprio campione preferito ed in estate giocava a torso nudo con un 9 disegnato a pennarello sulla schiena.

Il suo paese era sempre stato un posto fertile per le leggende, con personeGarcia Marquez diventate celebri per apparizioni più o meno razionali sulle quali poi la comunità intera dibatteva per mesi; esemplare fu il caso di Sangemini, che vide la Madonna alla guida di un trattore passargli accanto in un campo mentre lui cercava funghi una mattina nebbiosa di metà ottobre e non perse tempo e corse a raccontarlo al Dopolavoro Ferroviario scatenando una memorabile caccia alla Santa. Non vennero trovati segni di ruote nel posto che aveva indicato nè nella campagna circostante, ma ciò venne considerato come una ulteriore prova di una manifestazione divina e non impedì di proclamare un giorno a caso festa del paese ed accorparlo con una fiera di fine Agosto che nemmeno i vecchi si ricordavano più che cosa si festeggiasse se non la fine del lavoro, e quella miscela di sacro e profano nel calderone della possibilità di fare casino incontrò subito l’approvazione di tutti.

Il vecchio Gaita invece sosteneva di vedere Dio negli angoli, e di avere imparato come fare quando una volta per noia si era girato di scatto nel cortile di casa sua e aveva fatto appena in tempo a vedere un qualcosa nascondersi dietro il mucchio di fieno, un qualcosa che ovviamente al controllo successivo non risultava essere già più lì. Aveva già più di sessant’anni, e da quel momento ogni tanto cambiava velocemente la direzione dello sguardo inseguendo di continuo una seconda apparizione che per quanto ne poterono percepire gli altri gli fu sempre negata. Allora ogni tanto lo raccontava ad Ettore e i suoi amici quando erano bambini, e diceva che se avessimo voluto era facilissimo vedere Dio, e che era sufficiente ogni tanto girare di colpo lo sguardo verso un punto che prima non guardavamo, e Lui non avrebbe fatto in tempo a nascondersi ed avremmo visto chiaramente un’ombra rifugiarsi dietro qualcuno o qualcosa, e anche noi avremmo beneficiato della rassicurante certezza che un Dio c’era e che era in mezzo a noi più di quanto il più benevolo dei sacerdoti fosse disposto ad ammettere.

Morì una sera che non c’era né troppo freddo né troppo caldo, nella maniera in cui tutto sommato sperano di morire tutti ovvero addormentandosi nel suo letto tranquillo per non svegliarsi più, dopo non avere chiesto alla cameriera di preparargli la colazione per l’indomani per la prima volta in tanti anni, rafforzando la convinzione di Ettore che quando saremo vecchi sapremo quale giorno sarà il penultimo della nostra vita e potremo dedicarci ai preparativi per la partenza del nostro ultimo viaggio senza fretta nè lassismo. Per il paese girò l’ennesima malachiacchera alla quale nessuno volle prestare ascolto, che sosteneva che dall’autopsia risultasse che il vecchio Gaita era cieco almeno da una decina d’anni; ovviamente Ettore non poteva confermarla nè smentirla, ma in effetti non si ricordava di averlo mai visto leggere un giornale o giocare a carte, e non voleva nemmeno pensare che memoria di ferro sarebbe stata necessaria per vivere in un piccolo mondo fatto di una casa, alcune strade ed un dopolavoro ferroviario solo basandosi sui ricordi.
Da allora erano passati tanti anni, e lui aveva continuato ogni tanto a guardare in giro i volti delle persone, le vetrine dei negozi, l’interno degli uffici dalle finestre illuminate già dal primo pomeriggio negli inverni freddi e precoci di Milano, ma Dio non era mai riuscito a vederlo, e nemmeno le ombre che il buon Gaita insisteva ad incitarci a cercare e che forse non vediamo perchè sono dentro di noi.

– Con affetto, a Gabriel Garçia Marquez