Mi accodo alle recenti rievocazioni dell’amicissimo Ugo Boccassi a proposito del Kursaal Marini, la stupenda costruzione liberty che fu demolita alla fine degli anni ’60 per lasciar spazio al Teatro Comunale.
Lo faccio per un’ottima ragione, ovvero quel luogo meraviglioso (che allora – troppo piccolo – non ero in grado di apprezzare), è stato per me luogo formativo, cinematograficamente parlando, al pari del leggendario cinema parrocchiale San Rocco.
Quest’ultimo ce l’avevo in pratica davanti a casa, l’unico cinema che d’inverno veniva riscaldato con una stufa a legna, e non mi perdevo mai i due spettacoli settimanali, l’uno di mercoledì e giovedì e l’altro nel week-end. Però le pellicole che passavano al San Rocco, da buon locale di terza se non quarta visione, erano proprio malconce: tagliatissime, rigate e rumorose, protagoniste di spettacoli assai sgangherati (una volta addirittura partì il secondo tempo di un altro film: in pratica alla prima parte, a colori, de I cavalieri della tavola rotonda, seguì la seconda, in bianco e nero, di un film di Zorro – un ovvio scambio di “pizze”…).
Il Kursaal invece, sintesi tra il bel teatro eretto nel 1920 e uno splendido spazio esterno nel verde, funzionava pure da impeccabile locale di prima visione e programmava film intonsi e perfetti. I miei genitori, tra la seconda metà degli anni ’50 e i primi anni del decennio successivo, amavano frequentarlo spesso anche perché, in controtendenza, i biglietti di galleria si pagavano di meno rispetto alla platea. Una sorta di divisioni in classi in stile Titanic, ma alla rovescia: di sotto i più abbienti e meglio vestiti, di sopra ceto popolare, rumoroso e senza lussi esibiti (se pensate che sia un inganno della memoria, ricredetevi…) e, non di rado, in una sorta di rivalsa sociale, dalla galleria qualcuno lanciava oggetti “di disturbo” giù in platea. Gettonatissime le cicche perché allora, in quella galleria, tutti fumavano come turchi e sulla pavimentazione di legno (!) giacevano così tante montagnole di residui di sigarette che pareva di sguazzare in un portacenere gigante. Il legno era presente ovunque all’interno del Teatro Marini: alle pareti e sotto i piedi ed è stupefacente il rimarcarlo perché non scoppiarono mai incendi, che io sappia.
Al Marini vidi di sicuro La carica dei 101, Il ponte sul fiume Kwai, Mondo perduto, Zaffiro nero, Uomini H, I misteriani, Inferno nella stratosfera e Godzilla, ognuno a suo modo un trauma. Riuscii a sbirciare anche i coming soon de Il villaggio dei dannati, ma le presentazioni spaventarono a tal punto mio padre che lui si rifiutò categoricamente di portarmici. Detto con l’onda lunga del senno di poi, fece benissimo: se lo avessi visto allora, non avrei mai scritto un racconto con lo stesso titolo di quel film, e neppure il romanzo Io sono le voci.
Ricordo che a metà, più o meno, degli anni ’60 le programmazioni filmiche s’interruppero perché il locale ormai era fatiscente. Ma l’esterno, che era funzionale e suggestivo, fu ancora sfruttato a mo’ di piccola arena estiva e soprattutto per spettacoli musicali, in modo particolare concorsi per complessi dell’era beat. In quella veste ci capitai un paio di volte: una volta vincemmo e una volta arrivammo ultimi. Ma tant’era: l’importante consisteva nel salire su un palco.
Per rifinire la cronaca, anche se personalmente ero troppo piccolo per testimoniarne, va ricordato che il Virginia Marini, dalla fine della guerra sino alla fine degli anni ’50, propose importanti spettacoli di musica lirica e di prosa. Tra i primi Il barbiere di Siviglia e Rigoletto che chiusero la fase musicale nel ’61. Tra i secondi, titoli famosi del teatro classico, ma fra tutti si staglia come una gemma nel 1957 Ricorda con rabbia di John Osborne per la regia di Michelangelo Antonioni con Monica Vitti. E poi cinema & cinema…