Aiuto, i voti! [Calcio a colori]

Spiderdi Spider Jerusalem

C’è una cosa che spaventa il moderno giornalista sportivo molto più dell’inspiegabile assenza del proprio accredito in quell’unica trasferta contro una neopromossa del cui direttivo non conosce nessuno: i voti.

Mi spiego meglio: per molti anni sulla «Gazzetta dello Sport» i voti erano un simpatico complemento alla cronaca della gara che nessuno considerava e che avevano la semplice funzione di rendere immediatamente contestualizzabile e confrontabile il rendimento di due giocatori in partite differenti; era un periodo in cui un friulano testardo poteva ancora permettersi di convocare gli stessi ventidue giocatori per praticamente sei anni e nessuno gli avrebbe detto nulla, ma purtroppo proprio da quel momento le regole cambiarono e ci ritrovammo con i famosi cinquantasei milioni di Commissari Tecnici della Nazionale ad alternarsi nel ruolo con i cinquantasei milioni di Presidenti del Consiglio, di Segretari del Partito, di capoufficio e più in generale di chiunque ricoprisse un ruolo gerarchicamente superiore.

A metà anni ’90 accadde la rivoluzione: per geniale inventiva e perpetuaVoti- fantacalcio dannazione della propria anima, un milanese inventò il Fantacalcio, che si sparse carbonaramente per tutta l’Italia in due anni secondo i più ligi dettami della tradizione orale; nonostante il sistema presentasse alcune inquietanti deviazioni dalle regole frutto evidente di errate comunicazioni – chi non ricorda i risultati inquietanti delle partite al «Telefono senza fili» da adolescenti? – attecchì in maniera sufficientemente solida da permettere al buon Albini di fondare una casa editrice ed una società che gestissero il suddetto Fantacalcio in maniera imprenditoriale. Siccome internet era in una fase ancora più germinale del Fantacalcio stesso e comunicare a distanza era una vera e propria chimera in un mondo dove per scaricare una scrausa immagine in .jpg da 50k ci volevano 17 secondi, i campionati si organizzavano all’interno delle aule scolastiche – con fasi finali interclasse – e negli uffici.

L’inevitabile conseguenza furono le perculate storiche fra compagni di classe e colleghi, ed il perenne controllo delle ammonizioni o delle autoreti finchè non si erano attraversati tutti e cinque gli stadi del dolore e si giungeva all’accettazione che quel 65.5 era il nostro punteggio sul serio.
L’istituzionalizzazione della Gazzetta come organo ufficiale del Fantacalcio non fece che peggiorare le cose, mettendo in palio automobili, viaggi alle Maldive e altri premi per quell’unico isolato vincitore della gara a punti organizzata dalla «rosea», e da lì nacque l’attenzione smisurata dei lettori verso le pagelle di fine gara.

E’ mia ferma intenzione iniziare a valutare le prestazioni dei giovani calciatori solo a partire dalla categoria Allievi, quando le cose incominciano a farsi serie e ci sono titolari e riserve, che entrano quasi sempre ma che iniziano ad aspettare il loro turno; agli Esordienti, se richiesti, i voti li dò ma sono quasi sempre una versione numerica della politica dell’equilibrio democristiano, nella consapevolezza che se ha funzionato per cinquanta anni per milioni di italiani dovrebbe bastare per una trentina di scalmanati tredicenni.
Ciò non sempre accade, e non giova ricordare ai genitori preoccupati per l’insufficienza del proprio figlio in campo più che per quella nel compito in classe di matematica che i ragazzi sono abituati ad essere valutati fin dalla prima elementare: troverai sempre qualche mamma chioccia o qualche papà procuratore convinti di essere i genitori del prossimo Platini che ti contesteranno un 5.5 in una sconfitta 16-0 o che penseranno che tu ce l’hai con loro per ragioni così minimali da esserti sfuggite persino dalle note alla partita. Illuminante è la conversazione che ebbi a proposito con la mamma di un giocatore di una Juniores, che come tutti i suoi compagni a fine campionato avrebbe potuto votare e guidare una automobile; la donna mi si presentò dicendomi che la mia insufficienza aveva minato nel profondo l’autostima del proprio figlio, che per queste cose si deprimeva molto e tendeva a chiudersi in sé stesso. Il sorriso che le apparve in viso quando mostrandomi preoccupato domandai «Ma almeno a scuola va bene?» si spense un istante dopo la sua risposta affermativa ed il mio freddo commento «Allora fatelo studiare, che è meglio.»