A Lisòndria, l’infanzia, le bombe, l’amore [Il Superstite 180]

arona-2di Danilo Arona

A Lisòndria, l’infanzia, le bombe, l’amore. Un racconto di mia madre sbobinato e trascritto da mia nipote, Miriam Ferrarese, il 18 giugno 2013.

«Io sono Albertina Palumbo, nata a Nizza Monferrato il 27 Maggio del 1924. Qualche mese prima del delitto Matteotti.
Compiuti i due anni mi trasferii in Alessandria insieme ai miei genitori e la mia sorellina in corso Virginia Marini, e vi stetti fino all’età dei 10\12 anni all’incirca. Era l’anno 1934, si, me lo ricordo.
Ricordo molto bene questa parte della mia infanzia, anche se la via delle scuole elementari fatico a trovarla nelle mie memorie.
Io frequentai le elementari, che duravano tanto quanto quelle di adesso, cinque anni. In inverno piazzavo le fette di polenta arrostite dentro le tasche della giubba, che mi scaldavano le mani; con gli zoccoli ai piedi per la neve, andavo a scuola insieme ai miei compagni. Andavamo a scuola dal lunedì al sabato fatta eccezione del giovedì, stabilita come giornata di festa. In quei giovedì si cantava una delle tante canzoni, le ricordo tutte, quella del giovedì intonava «Se io fossi Mussolini cambierei il parlamento, cambierei la settimana che tutti i giovedì».
Al venerdì e al sabato si andava a scuola, ma l’ultimo giorno ci facevano sfilare per la città cantando le canzoni di Mussolini e del fascio: Duce tu sei la luce, fiamma tu sei del cuore, la patria se vorrai il sangue ti darà. Se il mondo vuol la pace dovrà sentir la voce di un popolo che dice, Duce, Duce, Duce.

Nelle classi, nella mia, la maestra era fascista e ci spronava e obbligava a cantare queste canzoni di Mussolini, ma nella classe a fianco alla mia la maestra era socialista. Evidentemente erano ancora gli anni in cui permettevano loro di insegnare nelle scuole. Gli ultimi.
Ingenuamente, quando arrivavamo in corridoio nei minuti dell’intervallo, si apriva un mezzo dibattito tra noi e le compagne di quella classe. Loro ci urlavano: Fascistone!, forse spinte dal valore della loro maestra e, noi, per tutta risposta  davamo delle fascistone a loro. Ero fascista, pur non sapendo minimamente cosa volesse dire. Capii dopo cosa quelle bambine dicevano. Capii anche che anche loro non sapevano nulla come me.

Come ben sapete, Mussolini era stato un maestro delle elementari che dava molto importanza all’istruzione. Era “lui” che pagava le mense. E quando a mezzogiorno mi davano il cestino da riempire di pane per portarlo alla nostra mensa, non potevo fare a meno di mangiare una “micca” grossa così! L’ultimo anno, in quinta, era prassi dare un premio in denaro alla più brava e meritevole della scuola. Io e un’ altra ragazza eravamo le candidate. Per scegliere chi avrebbe potuto avere la sovvenzione per proseguire alle scuole medie (le “commerciali” di allora) si doveva affrontare un saggio, a me di italiano e all’altra di matematica, perché eccellevamo in queste materie. Questo momento me lo ricordo in particolare perché lei vinse grazie a uno “spintone” dei genitori  e io no.

A scuola ci rimasi fino ai 12 anni, un anno in più. Era una ripetizione che ci concedevano per occupare quell’anno a me e ad Ada Alessandrini. E finito anche quest’anno andai a guardare una bambina come primo lavoretto.
Le persone, intanto, parlavano già di guerra.
Il mio primo contributo sul libretto era del 1939, avevo 15 anni e andavo a lavorare in una fabbrica bellica dove si costruivano pezzi per i mortai, i fucili, le mitragliatrici in via Don Bosco. Fortunatamente ci lavorai solo un anno; nonostante le 8 ore di lavoro già introdotte, per una ragazzina si trattava di un compito faticoso e severo.

Avevo 16 anni quando è scoppiata la guerra, nel 1940. In AlessandriaAlessandria in guerra avevano piazzato altoparlanti nelle vie principali e nelle piazze di tutta la città in occasione del discorso del Duce, in piazza Venezia a Roma. Ci radunammo tutti nella nostra piazza della Libertà per sentire la dichiarazione di guerra: Oggi abbiamo dichiarato la guerra alla Germania, alla Francia e all’Inghilterra […] La parola d’ordine è una sola! Categorica e impegnativa per  tutti […]Vincere! E vinceremo! E poi  Mussolini aggiunse: Italiani, volete la guerra? e la folla a Roma rispose tuonante Sìiii!,
Volete la pace?
Nooo!

Arrivati a casa, iniziavamo tutti a mettere lampadine piccole, a mettere tende blu davanti alle finestre, per non permettere di far vedere la luce fuori. A me piaceva leggere, ma dovevo farlo stando attenta e utilizzando la sola luce della pila. Sia di notte, sia di giorno suonavano gli allarmi e dovevamo scappare in cantina. L’aereo nemico si chiamava Pipetto; dove vedeva la luce, lui mitragliava. E tutti lo conoscevano molto bene. Una volta, avevo 17 anni, suonò l’allarme e corsi giù. Sentii le mitragliate così vicino da restare intontita per qualche minuto. Quando tornammo su io e mia sorella capimmo il perché. Pipetto aveva colpito la nostra stanza, entrando dalla persiane, sorpassando i vetri e colpendo gli scuri. Gli scuri del mio letto.

La sirena usata per gli allarmi era quella della fabbrica Borsalino, che prima la usava per i suoi dipendenti e ora per la guerra. In totale gli allarmi erano tre: il preallarme, il primo, che ti concedeva il tempo di scappare, identificabile con suoni continui; il secondo di pericolo, voleva dire  che gli aerei erano già sulla città, mentre il terzo era quello di cessato allarme.

Il mio secondo lavoro iniziò poco dopo quest’accaduto in una fabbrica di confezioni, nel secondo portone di corso Cento Cannoni, dove imparai a cucire.
Un giorno udimmo la sirena di Borsalino, che si trova a pochi passi da lì. La sirena di pericolo. Io, insieme alle altre ragazze, scappai verso piazza Garibaldi, ma, quando arrivammo sotto i portici era già troppo tardi. Gli aerei iniziarono a sganciare le bombe sulla piazza, sui giardini e sulla stazione. Noi, nascoste dietro una piglia, contammo le picchiate degli aerei e ogni volta ci scoppiavano le orecchie: diciotto. Dietro di me c’era una, ragazza terrorizzata che già parlava di morte, Emma, che mi strappava quasi il vestito dalla paura.

Non appena finite le ondate, vidi che le bombe erano tutte finite nei giardini; sotto si trovavano i rifugi delle famiglie. La gente dentro morì tutta. Tutto fu raso al suolo.
Per fortuna le bombe non caddero sotto i portici. Eravamo tutte e 30 lì e non riuscimmo a scappare oltre. E quando presi la bici, dalla piazza fino a casa, pedalai come un fulmine.

In quegli anni divenimmo tutti sfollati: chi aveva la possibilità di andarsene dal centro, come noi, lo faceva, mentre chi non poteva restava in città sotto cunicoli per ripararsi, per quanto possibile, dagli attacchi. Una notte fu bombardato il Teatro Municipale, ora sede del municipio, che ne uscì distrutto. Ricordo che era una meraviglia: tutto intarsiato in legno. Le fiamme erano talmente alte che da fuori pensarono che tutta la città fosse andata a fuoco.

Mio padre aveva in affitto una casa in via Levata, a Spinetta Marengo, poco dopo Alessandria. Chiese a chi vi abitava di lasciarci un paio di stanze e ci fecero spazio. Abitai lì solo in tempo di guerra.
Una sera, tornavo a casa in bici. Quando arrivai sul ponte che divideva la città da Spinetta, sul fiume Bormida, suonò l’allarme. Mi accinsi a pedalare con più lena  quando due tedeschi, a piedi, mi fermarono la bici dalla parte del manubrio e mi buttarono a terra, rubandomi la bicicletta. Scappai e mi nascosi nella in mezzo alla campagna, tra le piante.
Cessato l’allarme, mi incamminai a piedi fino in via Levata.

Il giorno seguente, dopo che un signore mi caricò sul sellino dietro, portandomi in città, andai al comando tedesco, in piazza Santo Stefano e non al lavoro.

Fuori dalla porta ci stava un “piantone” fascista al quale raccontai dei tedeschi e della mia bicicletta. Il fascista chiamò il tedesco con un cenno e, in tedesco, gli riferì. Il soldato bofonchiò in italiano di seguirlo. Mi portò davanti a un magazzino e una volta apertolo, io vidi cataste di biciclette rubate. Mi disse di guardare se trovavo la mia, ma ne presi una ancor più bella spacciandola per mia. Una volta uscita però mi chiesi tra me e me se il proprietario di quella bellissima bici, mi avrebbe mai beccato.

All’età di 18 anni mi feci il ragazzo, Geo di 28 anni. Lui era un militare e un atleta; al tempo di guerra risiedeva dove adesso si trovano i carabinieri. Lui prendeva le armi di nascosto e le portava, sulle montagne, ai partigiani.
Un giorno mi chiese di andare a fare un giro in bici agli Orti e io, con la gonna larga, mi sedetti dietro al sellino sopra un cuscino per non sentire male. Fermatici nel cortile di una casa, lui prese il cuscino e mi disse di aspettare fuori. Quando uscì, il cuscino che teneva in mano si era fatto decisamente più piccolo. Non sapevo di essermi seduta per tutto il tragitto su una mitragliatrice che lui aveva consegnato ai partigiani in quella casa. Non avrebbero mai fermato una coppia in giro per controllare, insomma, mi usò come una sorta di copertura.

I tedeschi avevano costruito vicino al ponte della ferrovia un ponte tutto  di legno. Una sera Geo mi portò a fare un giro in barca, sul Tanaro. Marciavamo a riva, dove le piante erano più fitte, per non farci vedere e restare coperti. Lui faceva un po’ da guastatore, piazzandosi sotto quel ponte tedesco e svitando i bulloni da sotto. Piantò il remo nella sabbia per fermare la barca e mi disse che l’indomani suo fratello sarebbe andato a smontare il tutto.

Tornando indietro al parco, scattò il coprifuoco delle 8. Lui, essendo un militare si arrangiò correndo in una direzione, accompagnandomi fino in via Palestro. Feci molta attenzione per captare il rumore degli scarponi della ronda, poiché, dopo il coprifuoco, chi era sorpreso per strada veniva fucilato. Riuscii ad arrivare a casa in corso Virginia Marini (eravamo tornati ad abitare lì), raccontando una scusa a mia madre molto preoccupata.

Ricordo quello che ci facevano credere alla radio, delle vittorie e degli avversari abbattuti. Ma in particolare ricordo Radio Londra che trasmetteva alla sera dando messaggi in codice ai partigiani.  Noi non capivamo ma sapevamo bene che comunicavano, indirettamente, con loro dicendo cose come: La luna splende in cielo oppure: Domani splende il sole. Mio padre ascoltava sempre Radio Londra, anche se mia mamma gli diceva di abbassare perché se la polizia ci scopriva, ci avrebbe sbattuti tutti in prigione.

I partigiani catturati venivano esibiti in piazza della Libertà, senza alcun ritegno.
Ricordo tutto.
Ricordo la prima bomba e i bombardamenti successivi. La gente che moriva. Le formazioni degli aerei. Le corse in cantina. Ricordo il disastro. Ricordo le sirene, e le fabbriche che chiudevano per il via vai. Suonavano per gli aerei, non più per gli operai. Ricordo gli americani e la loro gentilezza. Ricordo anche la quiete dopo la tempesta. Ricordo che noi bambini, ignari, senza svago alcuno, non ci piangevamo sopra. Il divertimento, noi lo cercavamo.»