di Bruno Soro
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“Dunque il cuore, l’obiettivo centrale dello studio dell’economia è capire come e perché la produttività cresce.”
P. Sylos Labini, “Un paese a civiltà limitata. Intervista su etica, politica ed economia”, Editori Laterza, Bari, 2001, p. 52.
Gli articoli che il professor Mario Deaglio scrive per il quotidiano La Stampa sono apprezzabili non solo per le idee in essi contenute, spesso condivisibili, quanto per la capacità che egli possiede di rivolgersi ad un pubblico di non addetti ai lavori con un linguaggio al tempo stesso semplice, ma rigoroso. Non fa eccezione l’articolo apparso su quel quotidiano mercoledì 29 gennaio (“Europa in cerca di produttività”) nel quale il professor Deaglio spiega con dovizia di particolari l’inutilità del tentativo di molte imprese italiane di riacquistare la competitività di prezzo per i propri prodotti puntando esclusivamente sulla riduzione del salario dei lavoratori e/o sulla flessibilità delle condizioni lavorative (la qual cosa significa rendersi disponibili ad accettare modifiche alle condizioni di lavoro conquistate con le lotte sindacali). Affiancato al dossier/Il lavoro in bilico, apparso a pagina 4 dello stesso numero di quel quotidiano, questi due servizi rendono bene l’idea, starei per dire il pregiudizio, che fa dipendere il successo o l’insuccesso di un prodotto (o di una azienda) dal costo del lavoro. Sia chiaro: non sto affermando che il costo del lavoro in sé sia irrilevante, ma vorrei soltanto che fosse chiaro che ciò che conta ai fini della competitività di un prodotto non è riconducibile esclusivamente all’ammontare del salario corrisposto ai lavoratori.
Grazie ad una occupazione precaria offerta a due giovani laureati (il sottoscritto ed un mio carissimo amico che da molti anni vive e lavora in quel di Ancona), ho potuto apprendere l’importanza di un concetto sovente trascurato, quello del “costo per unità di prodotto” (del quale il “costo del lavoro” è una delle componenti principali, ma non la sola, e talvolta nemmeno la più importante). Correva l’anno 1971 e, all’epoca, nel cercare un posto di lavoro, i laureati in Economia e Commercio (così si chiamava allora la Facoltà) avevano solo l’imbarazzo della scelta. Un nostro comune amico, titolare di uno studio avviato di commercialista, un po’ per metterci alla prova, un po’ per assicurarci un compenso per l’estate, ci offrì un lavoretto, una sorta di “analisi e certificazione del bilancio”, come oggi chiameremmo l’incarico ricevuto. Il lavoro consisteva nel controllare la contabilità di una piccola azienda che fabbricava cappottini per bambini. Un’azienda che, pur presentando un fatturato in forte crescita da un anno all’altro, da qualche tempo non distribuiva utili ai soci. Per un paio di mesi il mio amico ed io mettemmo sottosopra tutti i documenti contabili (fatture attive e passive, conto cassa e conti bancari, bilanci patrimoniali e conti dei profitti e delle perdite) degli ultimi quattro o cinque anni. Con nostra grande sorpresa, la contabilità sembrava essere stata tenuta con precisione e non fu facile comprendere perché, pur vedendo crescere il fatturato annuo, non venissero distribuiti utili. Le fatture erano in ordine, così pure i pagamenti. I cappottini erano di ottima qualità (l’amministratore unico, dall’aspetto signorile e dotato di buon gusto, ogni anno si recava personalmente ad acquistare i tessuti a Parigi e si occupava del design) e i più bei negozi per l’infanzia del capoluogo piemontese cercavano di accaparrarsi le nuove confezioni, ritenendole, a ragione, di assoluto buon prezzo in rapporto alla qualità del prodotto.
Tutto sembrava in regola, e apparentemente i bilanci annuali sembravano riflettere in modo formalmente ineccepibile la situazione economica dell’azienda. L’inghippo venne fuori quando, applicando un concetto appreso all’università nei corsi di ragioneria, ci accorgemmo che non esisteva la “contabilità industriale”. Ciò rendeva impossibile conoscere quanto ogni cappottino veniva a costare, per cui non si sapeva se il prezzo praticato alla vendita, giudicato di buon grado dagli acquirenti molto competitivo, fosse o meno sufficiente a coprire il costo del prodotto. Nel tentativo di ricostruire il costo di ogni unità prodotta ci accorgemmo che, di fatto, l’azienda stava vendendo i suoi prodotti sottocosto: una volta azzerato il valore delle stoffe residue a magazzino (stoffe che essendo state acquistate negli anni precedenti erano inutilizzabili perché passate di moda) e dopo averne imputato il costo a ciascuna unità, ogni cappottino venduto veniva a costare qualcosina di più rispetto al prezzo di vendita, ragion per cui, quanto più il fatturato venduto aumentava, tanto più l’azienda accumulava perdite. Perdite che risultavano occultate nella contabilità generale in seguito alla sopravvalutazione dell’attivo.
Fu così che riuscimmo ad apprezzare appieno l’importanza di quel concetto teorico che prende il nome di “costo per unità di prodotto”, una componente significativa del quale è il “costo del lavoro per unità di prodotto”. Ora, ammettiamo pure che tutti gli altri costi siano stati correttamente imputati, è facile mostrare (è sufficiente dividere il monte salari corrisposto al lavoro per la quantità complessivamente prodotta) che il “costo del lavoro per unità di prodotto” coincide con il rapporto tra il salario unitario (o per ora lavorata) e la produttività del lavoro (o produttività per ora lavorata). Questo nuovo indicatore implica che se la produttività del lavoro (il denominatore del rapporto) aumenta più rapidamente del salario unitario (il numeratore del rapporto), il costo del lavoro per unità di prodotto diminuirà. Per contro, a parità di salario unitario, se la produttività del lavoro diminuisce, il costo del lavoro per unità di prodotto aumenterà. Il problema, dunque, da sempre al centro dell’attenzione di un grande economista come Paolo Sylos Labini, diviene semplicemente (si fa per dire) quello di spiegare che cosa farà sì che la produttività del lavoro cresca.
E’ a questo punto che interviene il pregiudizio. Secondo un certo filone di pensiero, in questo frangente storico dominante (come gli articoli citati all’inizio dimostrano), la produttività del lavoro aumenta in seguito alle modifiche nelle condizioni di lavoro (vale a dire, facendo sì che i lavoratori producano di più, rinunciando a qualche diritto acquisito, tipo le pause, o la distribuzione dell’orario di lavoro). In altri termini, per far aumentare la produttività, dalla quale dipende in gran parte la competitività di prezzo dei prodotti, occorre riformare il “mercato del lavoro”. Per un altro filone di pensiero, invece, oggi minoritario tra gli economisti di professione (ma non per questo da considerarsi errato), la produttività del lavoro aumenta soprattutto in conseguenza delle innovazioni incorporate nei nuovi investimenti (ossia macchinari che consentono di “risparmiare lavoro”). In base a questa seconda impostazione, la produttività potrà aumentare solo in seguito all’acquisto di nuove macchine, la qual cosa comporta un aumento del capitale reale impiegato nella produzione. Questa visione del processo produttivo sposta tuttavia il nesso di causalità (vale a dire che cosa determina che cosa), dal rendere meno costoso il lavoro, come implicitamente assunto dal primo filone di pensiero, alla messa in opera di nuovi investimenti: senza nuovi investimenti, infatti, l’impresa non può acquisire i vantaggi derivanti dalle innovazioni incorporate nei macchinari di ultima generazione.
Resta il fatto che, sempre secondo questa diversa visione del processo produttivo, le imprese faranno nuovi investimenti solo in presenza di aspettative positive circa l’andamento della domanda per i loro prodotti (principalmente i consumi). Ora, dal momento che i consumi delle famiglie dipendono prevalentemente dal reddito disponibile (il reddito al netto della tassazione), in un contesto di crisi economica come quello attuale – un contesto in cui le imprese tendono a “razionalizzare” l’impiego del lavoro (riducendolo, al fine di contenere il costo del lavoro) –, il reddito disponibile delle famiglie si riduce, sia in seguito ai contenimenti salariali, sia in conseguenza della perdita di posti di lavoro in conseguenza delle razionalizzazioni. Ma se le famiglie riducono i consumi, le aspettative delle imprese non possono che peggiorare. Esse rinvieranno pertanto le loro decisioni di investimento in attesa di una ripresa economica, col risultato che, non crescendo la produttività del lavoro, il costo del lavoro per unità di prodotto tenderà ad aumentare e la competitività di prezzo a diminuire. Tutto ciò avrà come conseguenza l’innesco di un processo involutivo che alimenta ulteriormente la crisi.
Quale di queste due visioni del processo produttivo sia più corretta non saprei (anche se ho le mie idee in proposito). Riassumendo, per i fautori della prima visione, allo scopo di favorire la crescita economica occorre agire dal lato dell’offerta dei fattori produttivi aumentandone l’efficienza: liberando le imprese da tutti quei “lacci e laccioli” che impediscono di ridurre il costo del lavoro; auspicando “riforme” volte ad accelerare i pagamenti alle imprese; riducendo le imposte sul lavoro; agevolando il ricorso al credito da parte delle banche. Per contro, i fautori della seconda visione ritengono che per far ripartire l’economia sia indispensabile effettuare una redistribuzione del reddito in favore delle categorie di percettori dotati di una più elevata propensione a consumare: i lavoratori dipendenti, i pensionati, i giovani privi di occupazione, in altre parole la “classe media”. Una redistribuzione del reddito verso il basso, infatti, stimolerebbe la spesa in consumi, e di conseguenza gli investimenti produttivi (non quelli finanziari o speculativi). La crescita economica che ne conseguirebbe farà aumentare la produttività del lavoro, facendo recuperare nel contempo la competitività di prezzo ai prodotti delle imprese. Va detto, peraltro, che questa contrapposizione tra coloro che ritengono di stimolare la crescita dell’economia agendo sull’offerta dei fattori produttivi e quanti pongono l’accento sugli effetti della redistribuzione del reddito volta ad incrementare la domanda di prodotti, divide da sempre il mondo degli economisti.
A complicare la questione, alla tradizionale bipartizione del sistema economico nell’economia cosiddetta “reale”, vale a dire quella che si occupa di spiegare la determinazione del livello dell’attività economica e dell’occupazione, e nell’economia “monetaria”, che vede la “politica monetaria” al servizio della produzione di beni e di servizi, dalla seconda metà degli anni Novanta si è imposta una nuova branca dell’economia politica, la cosiddetta “economia finanziaria”. Una branca che produce carta a mezzo di carta (o se si preferisce profitti a mezzo di debiti), la quale, potendosi muovere alla velocità della luce da un capo all’altro del mondo, ha preso il sopravvento sia sull’economia reale che su quella monetaria, creando ricchezze finanziarie immense, in grado persino di condizionare il sistema politico e finanche i rapporti tra gli stati, totalmente sganciate dall’attività produttiva e dal lavoro. Come se ne esce?
Una ricetta ci sarebbe: quella, ad esempio, adottata dagli Stati Uniti d’America per sconfiggere la Grande Crisi degli anni Trenta del secolo scorso (ma che potrebbe servire anche per sconfiggere la crisi attuale che dura ormai da più di cinque anni). Sentite cosa scrive il Premio Nobel per l’Economia Paul Krugman nel suo “La coscienza di un liberal” (Editori Laterza, Bari, 2008): “Negli anni Trenta, come oggi, una linea di difesa fondamentale dei conservatori contro le richieste di interventi volti a ridurre la disuguaglianza era affermare che non è possibile intervenire; in altre parole che nessuna politica può aumentare sensibilmente la quota del reddito nazionale destinata alle famiglie dei lavoratori, o quanto meno nessuna può farlo senza comportare effetti devastanti per l’economia. Eppure Franklin Delano Roosevelt e Harry Truman in qualche modo riuscirono a presiedere alla realizzazione di una drastica redistribuzione dei redditi e della ricchezza verso il basso, che rese gli americani molto più uguali di prima, e non solo l’economia non ne fu devastata, ma la Grande Compressione [la redistribuzione del reddito verso il basso] preparò il terreno per un enorme boom economico che durò un’intera generazione. Se riuscirono a farlo allora, dovremmo essere in grado di ripetere l’impresa”.
Chissà se il nuovo Ministro all’Economia del nascente Governo di Matteo Renzi, il valente economista professor Pier Carlo Padoan, continuerà a privilegiare la dottrina dell’austerità, auspicata quando ricopriva importanti cariche a livello internazionale – quale rappresentante dell’Italia presso il Fondo Monetario Internazionale e, dal 2007, quale capo economista dell’Organizzazione per la Cooperazione allo Sviluppo Economico (OCSE) – oppure sceglierà di attuare anche solo una “Piccola Compressione” lungo le linee indicate da Paul Krugman.
(bruno.soro@unige.it)