Oggi vi voglio raccontare una storia. A poco più di 40 minuti di auto o di treno da Lione sorge una cittadina francese che si chiama Saint-Étienne. Sconosciuta ai più, famosa più che altro per le glorie dell’omonima squadra di calcio e per aver dato i natali a Michel Platini, è, con i suoi 175.000 abitanti, il capoluogo della Loira, dal 2010 città Unesco per l’energia creativa. Medaglia conquistata sul campo dopo la conversione della propria economia industriale al design di qualità.
La prima impressione quando si arriva a Saint-Étienne è di trovarsi in un paese di piccole dimensioni, probabilmente a causa delle abitazioni basse e immerse nel verde, sullo sfondo di un bel paesaggio dolcemente collinare, più simile alla vicina Auvergne che alle ruvide asperità del Rhône-Alpes.
All’inizio del secolo scorso questa tranquilla cittadina è diventata meta di un grande flusso migratorio da tutta Europa, grazie alla presenza di un ricco bacino carbonifero e di moltissime miniere. Dopo la Grande Guerra Saint-Étienne è una fiorente città di minatori assolutamente multietnica. E, signore e signori, la comunità di immigrati più grande era la nostra. Proprio così, les italiens. Poi c’erano anche polacchi, ungheresi, e via dicendo, ma le famiglie dei nostri nonni erano di gran lunga le più numerose. Famiglie fuggite dalla miseria, soprattutto siciliana, dei primi anni Venti per un’altra miseria ancora più nera: quella del minatore. Una vita sfiancante, sfibrante, mortale. Una vita di stenti e miserie. Per di più accompagnata costantemente dallo sguardo sprezzante del razzismo francese, che sa essere spietato.
Eravamo, a quell’epoca, i famosi ‘macaronis’. Isolati, disprezzati, derisi, vivevamo in quartieri separati da quelli dei francesi e avevamo ricreato un piccola Italia disperata a Saint Etienne. Solo laggiù, nel buio profondo e totale della miniera, uomini ragazzi e bambini tornavano tutti uguali: solidarietà e fratellanza, tra i minatori, c’erano davvero. Altrimenti non si spiegherebbe perche’ i nostri connazionali abbiano lottato nella Resistenza, abbiano lottato per i propri diritti e per migliori condizioni di vita. Abbiano lottato pure in Algeria, coinvolti in una carneficina che non li riguardava affatto.
In una delle mille miniere della città lavora anche Joseph Sanguedolce, il protagonista della nostra storia. Classe 1919, immigrato con la propria famiglia da Sommatino, Sicilia, dopo la chiusura delle zolfatare decisa dal Duce, Joseph ha solo 12 anni quando arriva in Francia, ma lavora già sottoterra con il papà e i fratelli maggiori. Sogna di diventare, un giorno, un grande corridore ciclista. Sogna una bicicletta, di volare su e giù per quelle colline di cui conosce solo il ventre oscuro. Joseph cresce in fretta, si avvicina agli ideali socialisti grazie al fratello, entra nella Resistenza clandestina, a poco più di 20 anni.
Arrestato, viene internato in Germania nel 1941. Rimpatriato poco dopo e tornato in Loira, diventa il responsabile dipartimentale dei Franc Tireurs Partisans, i partigiani francesi. Arrestato una seconda volta nel 1943 dalla polizia francese, Joseph rimane in carcere fino al febbraio 1944, quando i tedeschi lo deportano nel campo di concentramento di Dachau. Suo fratello Vincent, negli stessi mesi, è ucciso dalle SS. È di fibra forte il nostro siciliano, così piccolo di statura e dagli occhi chiari e limpidi. Così forte che riesce a sopravvivere a Dachau e torna a casa. A lavorare in miniera anche dopo la fine della Guerra. A lottare con i suoi compagni di lavoro per una vita più decente. A subire la dura repressione della polizia, le botte. E’ li, calmo e tranquillo, agli scioperi del 1947 e del 1948. La voglia di riscatto sociale di Jospeh non è stata piegata dalla lunga prigionia, anzi. Studia, lavora, si impegna. Fa carriera politica nel Partito comunista francese e nel sindacato. Nel 1977 ha le lacrime agli occhi quando diventa, del tutto a sorpresa, il sindaco della città, eletto per la lista unitaria della sinistra, nonostante gli avversari lo abbiano deriso per tutta la campagna elettorale a causa delle sue origini sociali modeste. Della sua povertà.
Il nostro piccolo minatore siciliano è sindaco. Il primo, longevo, comunista, in una comunità cattolica e conservatrice. Un sindaco amato e rispettato, che farà molto per la modernizzazione e lo sviluppo di Saint-Étienne. Come mi raccontano, con tanto orgoglio, i suoi camarades di partito che con lui hanno condiviso la vita e un progetto politico. Lo stesso orgoglio che ho provato anche io al termine della storia. Perché il piccolo minatore siciliano ce l’ha fatta.