“Il mondo non è governato dall’alto in modo tale da far coincidere sempre l’interesse privato con quello sociale; né è amministrato quaggiù in modo che i due interessi coincidano in pratica. Non è corretto dedurre dai principi dell’economia che un «illuminato» interesse particolare operi sempre nell’interesse pubblico. E non è neppure vero che l’interesse particolare sia in genere illuminato: il più delle volte gli individui che agiscono in proprio per perseguire fini personali sono troppo ignoranti o troppo deboli perfino per conseguire questi loro fini”
J.Maynard Keynes, La fine del «laissez-faire», 1926.
Qualche giorno fa il cav. Silvio Berlusconi ha celebrato, con un messaggio televisivo registrato, i fasti dei suoi vent’anni da quando nella primavera del 1994 è avvenuta la sua “discesa in campo”. Vent’anni che hanno lasciato l’Italia in macerie. Sia chiaro: tutti ci hanno messo del loro e si sono impegnati a fondo, istituzioni, politici, media e società civile, per far sì che il suo progetto di salvare l’Italia dai “comunisti” andasse in porto. Non si può certo dire che almeno questo obiettivo non sia stato raggiunto: il Governo è retto da un presidente e da un vice ex-democristiani e dei due partiti che sorreggono la coalizione delle “larghe intese” (nel frattempo alquanto ristrettesi), uno è una emanazione di cattolici prestati alla politica e l’altro ha appena eletto quale segretario un ex-democristiano. Mai successo fu così (politicamente) pieno. Quanto alle prospettive future, un carissimo amico ed ex dirigente di spicco di un grande sindacato (di ispirazione cattolica) ha così commentato l’accordo che sta alla base della legge elettorale in via di approvazione: “ci voleva Matteo Renzi per far passare le riforme che stanno a cuore a Berlusconi”. Il quale, a buon diritto, può aspirare ad entrare nel Guinness dei primati, essendo l’unico caso al mondo capace di indossare la maglia di primo pregiudicato italiano, condannato in via definitiva dalla giustizia italiana, espulso dal Senato della Repubblica, ma tuttora a capo della maggiore forza politica (che dice di essere) all’opposizione nel Parlamento italiano, ma al tempo stesso così abile da essere contemporaneamente all’opposizione e al governo del paese. Qualche merito gli va ascritto.
Paolo Sylos Labini, a mio parere uno dei maggiori economisti italiani del Novecento, è stato sicuramente il primo, anche se non l’unico, a denunciare (inascoltato dalla politica) l’enorme conflitto d’interesse in capo all’allora spregiudicato monopolista dell’informazione televisiva commerciale, il quale, candidatosi alla guida del paese, ha condizionato (più nel male che nel bene) l’economia, la politica e la società nell’ultimo ventennio di storia patria. Senza offesa per alcuno, dai politici e dalla pubblicità gli elettori sono considerati alla stregua di “bambini creduloni” (più volte ho sentito mia madre, buonanima, affermare che: “l’ha detto la televisione e quindi sarà vero”).
Nella sua impagabile denuncia circa i danni che la televisione può provocare nella mente dei bambini, Karl Popper scriveva:
“(…) nel loro intero equipaggiamento per la vita, i bambini sono attrezzati in modo da potersi adattare ai diversi ambienti che troveranno intorno a loro. (…) Noi mandiamo i bambini a scuola perché possano imparare qualcosa. Ma che cosa significa realmente “imparare”? E che cosa significa “insegnare”? Significa influenzare il loro ambiente in modo che possano prepararsi per i loro futuri compiti: il compito di diventare cittadini, il compito di guadagnare denaro, il compito di diventare padri e madri per una nuova generazione e così via. Perciò tutto dipende dall’ambiente, vale a dire che, come generazione precedente, noi abbiamo la responsabilità di creare le migliori condizioni ambientali possibili”. (“Una patente per fare tv”, in Cattiva maestra televisione, a cura di G. Bosetti, Marsilio, Padova, 2002, p. 75).
Proviamo allora a chiederci quale era e come si è evoluto l’ambiente di una società complessa, ambiente nel quale è cresciuta la generazione di chi era bambino nei primi anni ’80, i cui genitori avevano il compito “di diventare padri e madri per una nuova generazione”. L’ambiente ideologico circostante era dominato da quella corrente di pensiero neoliberista (un misto di conservatorismo e liberismo), dell’era thatcheriana (Margaret Thatcher è stata leader del Partito Conservatore inglese dal 1975 al 1990 e Primo Ministro di quel paese dal 1979 al 1990). Una corrente di pensiero rapidamente affermatasi negli Stati Uniti, grazie al terreno fertile rappresentato dalle due presidenze repubblicane di Ronald Reagan (dal 1981 al 1989) e di George H.W. Bush (dal 1988 al 1993). Apparentemente assopitasi sotto la presidenza democratica di Bill Clinton (dal 1993 al 2001), durante la quale, giova ricordarlo, è stata abolita la normativa che vietava alle banche di compiere operazioni speculative, si è infine consolidata con la presidenza repubblicana di W. Bush (dal 2001 al 2009), fino a rappresentare la dottrina ufficiale del cosiddetto “Washington Consensus” (avendo pervaso le amministrazioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale e del Tesoro americano). Alla base di questa corrente di pensiero vi è un’ideologia individualistica, stando alla quale il solo limite al comportamento degli individui è il rispetto (formale) della legge. In quest’ottica, lo Stato dovrebbe limitarsi a gestire unicamente i Servizi generali della Pubblica amministrazione della Difesa, dell’Ordine pubblico e della sicurezza, vale a dire le tre macro-funzioni che definiscono l’intervento dello “stato minimale”.
E’ in questo contesto che, grazie anche alla rapidità della diffusione delle informazioni mediante la rete televisiva, è potuto dilagare in pochi mesi nel 1994, in un terreno fertile come quello di chi non aspettava altro, il messaggio del nuovo “messia”: se siete poveri è per colpa vostra, fate come me, fatevi furbi, arricchitevi. Pagare le tasse è da stupidi; lo stato non deve mettere freni all’iniziativa privata. In poche parole, tutto ciò che è “pubblico”, non è di tutti, come sostengono “i comunisti”, ma di nessuno, quindi appropriatevene. Non è che prima non vi fossero, specie in politica, furti e ruberie, tant’è vero che era in piena attività il pool di mani pulite che, con le sue inchieste e con i suoi arresti, aveva portato all’implosione dei partiti della cosiddetta “prima Repubblica”. Il fatto è che, grazie al messaggio subliminale “fatelo, purché non vi facciate prendere”, i comportamenti individuali, che prima erano improntati all’etica della morale, prima ancora che a quella della legge, comportamenti che fino ad allora erano appannaggio di pochi, sono divenuti la regola: basta guardarsi attorno, dal mancato rispetto delle norme del codice stradale, alla diffusione del lavoro nero e dell’economia illegale, all’indifferenza per l’ordine, la pulizia, la rapida decadenza delle autorità a qualsiasi livello, fino al dilagare del “farsi giustizia da sé”. In poche parole, un decadimento culturale che ha portato alla disarticolazione dei rapporti sociali, ciò che gli economisti chiamano “distruzione del capitale sociale”. Ora, fino a quando il comportamento anti sociale è limitato a pochi casi, il controllo e il sanzionamento dei comportamenti illeciti è possibile, ma quando supera una certa soglia (una certa “massa critica”) ci vorrebbe un carabiniere per ciascuno di noi. Essendo venuta meno l’etica della responsabilità individuale, in un simile contesto qualsiasi minaccia (quella che i giuristi chiamano l’entità della pena) diviene irrilevante: poiché la probabilità di essere pizzicato è molto bassa; siccome la probabilità di subire la sanzione se presi è anch’essa molto bassa (basta rivolgersi a chi di dovere o corrompere qualcuno per farsi eliminare la sanzione) ed essendosi praticamente azzerata l’avversione al rischio, la capacità di deterrenza di qualsiasi pena, fosse anche la pena di morte, è nulla.
Se accanto a tutto ciò (in gran parte “a causa” di tutto ciò) si considera la perpetrata distruzione del “capitale umano”, per cui, anziché puntare ad elevare il livello medio dell’istruzione dalle scuole materne all’università – nella mia generazione, grazie ad una serie di provvedimenti approvati nella “prima Repubblica”, tra cui l’istituzione del presalario, i figli del proletariato hanno potuto accedere all’istruzione universitaria, gli operai hanno potuto accedere ai corsi pomeridiani organizzati dalle scuole e dai sindacati e pagati dalle imprese, delle cosiddette “150 ore”, e all’Università si tenevano corsi speciali per gli studenti lavoratori -, oggi si punta tutto sulle “eccellenze”, il messaggio inviato e recepito dalla gente è “studiare non serve a nulla, perché intanto i laureati non trovano lavoro”. Ed in parte è vero, giacché una popolazione poco istruita, crede maggiormente ai messaggi pubblicitari, si lascia più facilmente incantare dai demagoghi, dai comici e dagli imbroglioni: in poche parole, politicamente, si controlla meglio.
E’ un vero peccato che cinque anni di crisi economica (in gran parte conseguenza dei comportamenti indotti dal pensiero unico di chi crede ciecamente nella capacità del mercato di autoregolarsi attraverso il meccanismo dell’aggiustamento dei prezzi e dei salari), e le conseguenti ristrutturazioni aziendali abbiano distrutto una quantità enorme di posti di lavoro; che in seguito a ciò, e agli effetti della svalutazione interna seguita all’introduzione della moneta unica, i redditi da lavoro (su cui si basa prevalentemente il sistema fiscale) siano stati compressi in maniera abnorme ad esclusivo vantaggio dei redditi finanziari (molto più evanescenti e poco gravati dalle imposte). Pertanto, ben si comprende quanto sia difficile intravvedere negli esili segnali di una ripresa (imputabile essenzialmente ad un effetto di rimbalzo dopo la caduta della crisi), quell’auspicabile periodo di crescita economica da tutti desiderata, dal momento che non sarà facile ricostruire un sistema sociale così disarticolato partendo da simili macerie. E in ogni caso, posto che ci si riesca, per farlo occorrerà parecchio tempo.