Roma padrona [La coda dell’occhio]

Zoccola Paolodi Paolo Zoccola

Tutto incominciò con Veltroni. Quando, sindaco di Roma, si prodigò in una serie di iniziative destinate ad intensificare gli appuntamenti di spicco organizzati dalla capitale. Naturalmente mettendo in non cale la presenza di prestigiose manifestazioni consimili storicamente presenti nella penisola e, va da sè trattandosi di un politico, della loro resa economica. E’ proprio da lì che è partito il progetto ‘Roma capitale’ che si è concluso con i 400 milioni di Euro concessi magnanimamente nei giorni scorsi dal governo Letta per ripianare un bilancio altrimenti fallimentare.

Partendo innanzitutto dal cinema con la bella iniziativa di dar vita, senza assolutamente badare a spese, al secondo festival del cinema italiano, quando c’era già quello di Venezia, carico di fama e di onori, col risultato di una manifestazione che ancora oggi non è riuscita ad affermarsi compiutamente e viene mantenuta all’onore delle cronache a forza di comparsate da rotocalco.

Poi è stata la volta della grande kermesse dedicata al turismo (a proposito, che fineVeltroni Walter ha fatto? Non se ne sente neppur più parlare) con l’unico risultato di danneggiare altri appuntamenti importanti da tempo affermati specialmente nel Nord Italia.

Insomma un po’ come il cane nell’orto, che non mangia e non lascia mangiare. Ma con la coda dell’occhio sono percepibili altri elementi che tutti insieme rivelano un esibito primeggiare del mondo romano sul resto del Paese. Con esiti addirittura fastidiosi nel mondo dello spettacolo. Non esiste più un serial o film prodotto in Italia in cui non domini la parlata romanesca con i suoi ‘aho!, ‘anvedi’, che si allarga fino a comprendere una ampia koinée meridionale ormai padrona nel settore. D’altra parte basta far caso ai comici che con alcune notevoli eccezioni (Crozza) da quelle regioni quasi tutti ormai provengono, lasciando soltanto un qualche spazio, ma solo a livello di enclave, a registi e attori di provenienza toscana. E il resto d’Italia? Niente. Scomparso il Piemonte che con Elisa di Rivombrosa aveva pure tentato con successo la strada del serial di qualità, scomparsa la grande tradizione cabarettistica lombarda e via discorrendo fino ad arrivare al nulla attuale.

Attenzione, le mie non sono idiosincrazie da nordista padano, ma derivano dalla preoccupazione per il manifestarsi di un preciso fattore di omologazione linguistica che in un Paese come l’Italia può trasformarsi nella mattanza delle lingue regionali, con perdite enormi dal punto di vista culturale. Da noi, facendola breve perché non sto scrivendo un saggio di linguistica, vivono (sopravvivono), organismi linguistici che non vanno considerati come dialetti ma come lingue regionali e sovraregionali: il piemontese, il ligure, il lombardo, il veneto, il toscano, il romanesco, il campano, il siciliano, il sardo. Ognuna di queste parlate ha perfetta dignità di lingua in quanto in grado di esprimere sentimenti, passioni, valori, argomentari logici di ogni tipo. E sopratutto in grado di suggestive mescidazioni con la lingua nazionale che ne ha tratto nei secoli agilità ed efficacia espressiva.

Per cui non ci sarebbe niente di male se a tenere il palcoscenico fossere in questo giro di anni le regioni del centro Sud. Di male c’è che i parlanti in causa usano la suddetta koinée meridionale come fosse l’italiano. In una parola, attori, comici e artisti dello spettacolo in genere (naturalmente sostenuti dalla nostra televisione di Stato, quando dicono ‘anvedi’, quando dicono ‘mortacci tua’, quando fanno disilvoltamente a meno del congiuntivo non cercano fini espressivi, ma sono convinti di parlare la lingua di scambio attualmente in uso sul suolo italiano.

Le lingue si muovono sulle punte delle baionette, si diceva una volta, ma è comunque vero che camminano a braccetto col potere. In questo caso il potere romano che utilizza lo Stato a suo proprio uso e consumo.

La nostra lingua si è diffusa tra i parlanti grazie non alla scuola, ma all’uso televisivo che ormai ne detta usi e stilemi. Ora che la Tv di Stato si è aperta senza riserve alla parlata meridionale l’italiano rischia di perdere completamente le energie che l’avevano sempre sorretto per secoli.