di Bruno Soro
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“(…) l’imposizione fiscale a cui deve sottostare chi specula è irrisoria rispetto alle aliquote chieste a chi lavora per vivere.”
J. Stiglitz, Premio Nobel 2001 per l’Economia.
Su “Il Messaggero” di domenica 19 gennaio il professor Romano Prodi ha illustrato la sua “strategia per rilanciare la domanda interna”. La diagnosi di due illustri “primari” come la Banca d’Italia e “l’onnipresente Commissario europeo Olli Rehen” – scrive Prodi – continua ad insistere “sul controllo della spesa e sulle dismissioni”, quando il problema vero nascerebbe “dall’esame delle terapie”. Gli illustri “primari” – egli afferma – si sarebbero limitati a sostituire la terapia della riduzione dei salari con l’invito alla riduzione del cuneo fiscale, mentre una terapia corretta sarebbe quella che, attraverso la concessione del credito alle famiglie e alle imprese, si proponesse di “rivitalizzare la domanda interna”. Nonostante la minor pressione dei mercati finanziari, infatti, il malfunzionamento della macchina pubblica fa sì che la provvista del credito continui a calare. Tale malfunzionamento andrebbe imputato sia all’assenza di alcuni passaggi volti a rendere effettive le liberalizzazioni a suo tempo introdotte dall’allora Ministro dello Sviluppo Economico Pier Luigi Bersani, sia al fatto che “oltre la metà dei provvedimenti attuativi delle decisioni del governo Monti (e) di quelle del governo Letta” restano ancora da scrivere. Pertanto, i pagamenti dei debiti del settore pubblico alle imprese vanno a rilento. Questo, in sintesi, il contenuto dell’articolo di Romano Prodi.
Ora, ancora recentemente, il Governatore della BCE Mario Draghi ha ribadito che il meccanismo di trasmissione del credito dalle banche agli operatori economici sembrerebbe essersi interrotto, ragion per cui vale la pena di chiedersi quanto la strategia volta a stimolare la domanda interna mediante la “concessione del credito alle famiglie e alle imprese” sia efficace e, soprattutto, se non ve ne sia una migliore. Vediamo di approfondire la questione.
Che cos’è la “domanda interna”? Quali sono gli aggregati che la compongono, ma soprattutto da che cosa dipende il loro valore? Stando al sito www.BusinessDictionary.com, per “domanda interna” s’intende “la spesa aggregata di un’economia che include le importazioni ma non le esportazioni”. In pratica, tutto quanto i residenti acquistano sia dal mercato interno sia da quello estero. Per gli schemi di contabilità nazionale – la metodologia standardizzata a livello europeo e utilizzata dall’Istituto di statistica (ISTAT) per predisporre i Conti economici nazionali – la “domanda interna” si compone di quattro voci: la “Spesa per i consumi finali delle famiglie”, la “Spesa per consumi finali delle Amministrazioni Pubbliche” (la cosiddetta “Spesa pubblica”), gli “Investimenti lordi” e le “Importazioni di beni e servizi”. Il primo di questi quattro aggregati, la Spesa per i consumi finali delle famiglie, rappresenta la quota del PIL di gran lunga più rilevante (pari, nel 2012, al 60,4%). Seguono, in ordine di importanza, le Importazioni di beni e servizi (con una quota del 29,1%); la “Spesa pubblica” (che rappresenta il 20,1% del PIL) e infine gli “Investimenti lordi” (che pesano il 17,9%). E’ pertanto fuori di dubbio che i consumi delle famiglie costituiscano la componente più significativa della domanda interna.
Fin qui i dati della Contabilità Nazionale. Il problema vero consiste però nello stabilire da che cosa dipende il valore di ciascuno dei quattro aggregati che compongono la domanda interna. Per rispondere a questo interrogativo occorre fare riferimento a delle ipotesi, che, opportunamente specificate, si traducono in altrettante “teorie”. Rifacendoci alle teorie accolte nella maggior parte dei manuali di Macroeconomia, le importazioni di beni e di servizi dipenderebbero, in parte, dal reddito nazionale (che con alcune correzioni quantitativamente poco rilevanti corrisponde al PIL) e in parte alla cosiddetta “competitività”, non solo di prezzo, ma soprattutto di qualità (poiché le auto tedesche costano di più di quelle italiane, ma le prime sono ritenute qualitativamente superiori). Ora, poiché da più di dieci anni l’economia italiana è sostanzialmente stazionaria (essendo cresciuta mediamente ad un tasso dello 0,5%) e, salvo che in alcuni comparti, la produzione interna non parrebbe essere più competitiva di quella estera, si può ragionevolmente supporre che l’apporto di questa componente alla crescita della domanda interna sia contenuto (in ogni caso, per non incorrere in problemi nei conti con l’estero, un eventuale aumento delle importazioni andrebbe compensato con un pari importo delle nostre esportazioni). Per quanto riguarda la spesa pubblica, in ragione dei vincoli interni e di quelli imposti dal rispetto delle regole del Piano di stabilità dell’Unione europea, ci si può attendere che anche il contributo alla crescita della domanda interna di quest’aggregato sia scarsamente rilevante. Restano quindi gli investimenti delle imprese e i consumi delle famiglie. Per quanto riguarda i primi, siccome i tassi d’interesse reali si mantengono molto bassi, la loro sensibilità alle variazioni al ribasso del tasso d’interesse (un’ipotesi questa accolta dalla teoria keynesiana dell’investimento) non dovrebbe essere elevata. Per contro, si può ragionevolmente ipotizzare che la spesa da parte delle imprese per l’acquisto di nuovi beni strumentali, sia per la sostituzione di quelli obsoleti che per accrescere la capacità produttiva, risenta significativamente dell’andamento dei consumi delle famiglie. Se si considera poi che per via della crisi la capacità produttiva della nostra economia è largamente sottoutilizzata, la crescita della domanda interna viene a dipendere quasi esclusivamente dalla crescita dei consumi delle famiglie.
E qui viene il bello. Già, perché la possibilità che la spesa per i consumi delle famiglie possa risentire in maniera rilevante dalla concessione del credito da parte delle banche – posto che per la Contabilità nazionale l’acquisto di abitazioni è incluso negli “Investimenti” – farebbe aumentare l’indebitamento delle famiglie stesse. Ammesso che questa terapia possa avere una certa efficacia quale stimolo della domanda interna nel brevissimo termine, certamente non è lungimirante. Per spiegare il comportamento della spesa delle famiglie nell’acquisto di beni di consumo (e di servizi), infatti, si è soliti fare riferimento alla teoria keynesiana del consumo incentrata sulla cosiddetta “legge psicologica fondamentale”. Stando a questa “legge”, “di norma e in media, gli uomini sono disposti ad accrescere il loro consumo con l’aumentare del reddito, ma non tanto quanto è l’aumento del reddito” [J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Torino: UTET, 1971, pagina 238]. Se si accetta questa visione, un aumento del consumo delle famiglie dovrebbe essere la conseguenza di un aumento del reddito (e non viceversa). Ragion per cui, parrebbe difficile far aumentare la domanda interna per questa via. Esiste però una versione di questa teoria (non sempre considerata dalle versioni maggiormente semplificate della stessa), in virtù della quale l’aumento del consumo che conseguirebbe da ogni successivo (e uguale) incremento del reddito dovrebbe essere sempre più piccolo. Quest’ipotesi apre la strada a interventi di politica economica di carattere redistributivo tra le diverse categorie dei percettori di reddito. Infatti, lo stesso ammontare di reddito sottratto alle categorie che possiedono una minore propensione alla spesa (quelle a reddito più elevato), fatto pervenire alle categorie a reddito più basso (ma con una più elevata propensione all’acquisto di beni di consumo) comporterebbe un aumento del consumo (e quindi della domanda interna) a parità di reddito.
Sta di fatto che in seguito alla “svalutazione interna” verificatasi negli anni immediatamente successivi all’introduzione della moneta unica (l’applicazione di un cambio di mille lire per un euro anziché di 1936,27 come concordato al momento della fissazione del tasso di cambio irreversibile), al blocco dei salari e degli stipendi (dei dipendenti pubblici, ma non solo) e all’abnorme estensione del precariato, vi è stata una consistente riduzione del reddito disponibile per i consumi dei ceti medi. Una riduzione che spiega assai bene la contrazione dei consumi registrata nei giorni scorsi dall’ISTAT (e largamente riportata sulla stampa quotidiana). Ora, se si accoglie questa interpretazione, al fine di stimolare la domanda interna attraverso i consumi, non basta, come qualcuno ha sostenuto, ridare “fiducia agli italiani”, ma occorre una consistente redistribuzione del reddito dalle fasce a reddito più elevato a quelle a reddito meno elevato. In altre parole, occorrerebbe ridurre le enormi iniquità nella distribuzione del reddito. La qual cosa non può che passare attraverso una redistribuzione del carico fiscale, sia recuperando l’enorme evasione fiscale, sia redistribuendone maggiormente il carico sui redditi più elevati (tanto per essere più chiari, sui redditi derivanti dai capital gain su operazioni finanziarie e speculative).
Ma una volta che l’economia ha chiarito i concetti, esplicitato le implicazioni delle diverse terapie e suggerito gli strumenti per intervenire, tutto il resto compete alla politica. Dubito tuttavia che, avendo il “pensiero unico” liberista pervaso persino ampi settori delle forze progressiste, la terapia che suggerisco possa trovare applicazione. Può darsi che nei prossimi mesi si assista ad una ripresa dell’economia italiana. A mio avviso, si tratterà in ogni caso di un “effetto di rimbalzo”, poiché, con una crescita prevista per il 2014 dell’1%, e posto che tale crescita persista anche negli anni successivi, occorrerebbero quattro o cinque anni per far sì che il PIL (e quindi il reddito degli italiani) potesse tornare al livello precedente la crisi che stiamo vivendo.