“Non avere un pensiero e saperlo esprimere – è questo che fa di uno un giornalista”.
Karl Kraus, “Detti e contraddetti”, Adelphi, Milano 1972.
Pare che un’assidua lettrice dei miei articoli si sia lamentata del fatto che, su mia esplicita richiesta, essi siano resi non commentabili. La ragione di ciò è che sono nettamente contrario a ogni tipo di “chiacchiera da bar”, qual sono i commenti sui social network (a maggior ragione se firmati con uno pseudonimo o nickname). La caratteristica dei miei articoli, molti dei quali hanno un carattere divulgativo, è quella di apparire semplici al lettore (soprattutto se inesperto), ma richiedono il dispendio di un bel po’ di tempo per essere scritti. Salvo che si tratti appunto di “chiacchiere da bar”, la risposta ai commenti mi richiederebbe troppo tempo: innanzitutto per comprendere esattamente il contenuto del messaggio; poi per una riflessione circa il fatto se sia il caso di rispondere al commento, e se sì su quale debba essere il contenuto della risposta. Sovente, infatti, i commenti sono frutto di radicati pregiudizi o di tentativi di affermare comunque il proprio punto di vista. Per capire, si badi bene, non per leggere, occorre una buona conoscenza di una forma particolare di linguaggio, detta «di elaborazione», la quale, a differenza del linguaggio cosiddetto «di comunicazione», fa largo uso di concetti non banali e di relazioni tra gli stessi nell’intento di interpretare i fatti mediante teorie e modelli. Una forma di linguaggio nota a chi scrive, ma che spesso fa difetto agli estensori degli anonimi commenti. Detto in altri termini, molti dei miei articoli, sono leggibili (poiché scritti in italiano), ma non altrettanto facilmente comprensibili, essendo frutto di connessioni tra i concetti non sempre espressamente rese esplicite. Per convincersi di ciò è sufficiente sottoporsi ad un semplice test: una volta letto l’articolo si provi a ripeterne il contenuto. Se ci si riesce, vuol dire che lo si è compreso, altrimenti lo si è semplicemente letto.
A riprova di tutto ciò, consideriamo il seguente brano tratto dalle pagine economiche di La Stampa del 30 dicembre:
“Il bilancio definitivo di Piazza Affari (…) è indubbiamente positivo, con un rialzo da inizio anno del 16,56% raggiunto dopo un biennio da brivido (…). La capitalizzazione complessiva delle società quotate a Milano ha raggiunto, allo scorso 23 dicembre, quota 438,2 miliardi di euro, in crescita di quasi il 20%, portandosi al 28,1% del Pil, a fronte del 22% del 2012”.
Il contenuto di questo brano mescola una serie di concetti che attengono all’Economia finanziaria, una branca specialistica dell’Economia, nell’ambito della quale la crescita viene misurata sia in termini dell’aumento dell’indice FTSEMib, acronimo dell’espressione Financial Times Stock Exchange (riferito alla Borsa di Milano), sia dall’aumento del valore delle società quotate in borsa (la “capitalizzazione complessiva”). La capitalizzazione complessiva viene inoltre rapportata al valore di un altro indice, il PIL, la cui variazione misura invece la crescita dell’economia reale, essendo quest’ultima la rappresentazione del reddito creato e distribuito a coloro che hanno contribuito a produrlo. In questo caso, pertanto, la crescita altro non è che la variazione (che può essere positiva o negativa) del reddito (e non della ricchezza come erroneamente spesso si usa dire nei media). Ora, si dà il caso che i dati ufficiali riguardanti il calcolo del PIL per l’anno appena concluso siano ancora in corso di elaborazione da parte dell’ISTAT. Al momento, si sa solo che, stando ad una stima provvisoria, nel corso del 2013 il PIL sarebbe diminuito dell’1,4%.
Ciò che nel brano sopra riportato si dà per scontato è che il lettore sia a conoscenza del fatto che l’aumento della quota della capitalizzazione sul PIL consegue dal rapporto tra lo stock della capitalizzazione complessiva (il cui valore è stato calcolato il 23 dicembre), e il flusso dei beni e servizi finali che concorrono a formare il PIL (l’effettivo valore del quale diverrà noto solo tra qualche tempo). Poiché il numeratore del rapporto è aumentato, mentre il valore del denominatore si stima essere diminuito, la quota della capitalizzazione non può che essere aumentata. Quale utilità può avere quell’informazione? Non saprei, salvo, forse, il fatto che possa indurre qualche gonzo inesperto di finanza a giocare i suoi risparmi in borsa attirato dalla prospettiva di un facile guadagno.
Per contro, tenendo conto di tutte le informazioni disponibili, la notizia a mio avviso più rilevante, ancorché sottaciuta nel brano sopra riportato, è che la crescita della ricchezza finanziaria, verificatasi peraltro in un anno in cui l’economia reale, anziché aumentare si è contratta (una contrazione che persiste ormai da un quinquennio), non può non avere quale conseguenza l’accentuazione della disuguaglianza tra i (pochi) che si sono arricchiti e i (molti) che si sono impoveriti. Ciò, con l’ulteriore deprecabile conseguenza di erodere ciò che resta di quella coesione sociale su cui si fonda la nostra democrazia.
P.S. Leggo su La Stampa del 4 gennaio il brillante articolo di Alberto Infelise, caposervizio degli Interni di quel quotidiano, sulla crescente importanza, per chi vuole fare carriera, della comunicazione via social network (“L’ora dei portavoce 2.0”). Scrive Infelise che “I nuovi comunicatori, ma anche i politici che cercano di declinarsi al futuro, vengono ingaggiati tra chi è capace di parlare con mediazioni minime al maggior numero di persone possibile” (il riferimento è alla nomina a capo dell’ufficio stampa del PD di Matteo Renzi del vice direttore del quotidiano “Europa”, Filippo Sensi, noto nel mondo dei cinguettii con lo pseudonimo di «Nomfup». Sarebbe cosa certamente utile se il nuovo linguaggio in uso nel mondo della comunicazione, la cui regola è: “140 battute (spazi compresi) per dire quello che si pensa”, venisse utilizzato anche dai cultori dei commenti sui blog. Ovviamente, solo dopo avere assimilato la differenza che intercorre tra leggere e capire ciò che si è letto.