Con uno dei tanti patti non scritti, nel primo e nel secondo dopoguerra, gli impiegati statali o parastatali erano retribuiti pressoché miseramente, attestandosi agli ultimi posti delle categorie salariali. Stipendi da fame dunque ma garanzia, non scritta ma ferrea, del posto fisso. A meno che uno non sparasse al direttore dell’ufficio e non fosse sorpreso in flagrante rubarizio, una volta assunto poteva contare con sicurezza di raggiungere l’età della pensione dopo aver scalato pian piano tutti i previsti scalini della anzianità di carriera senza dover cambiare posto di lavoro. Poi c’era qualche altro benefit come un controllo della produzione non proprio asfissiante, generosi permessi di malattia e la possibilità di integrare il risicatissimo stipendio con qualche ora di straordinario, o in tenpi ancora più arretrati, con qualche lavoretto a cottimo per smaltire il sempre incombente arretrato.
E in sostanza le cose sono andate avanti così col benevolo consenso di tutti, anche dei ‘clienti’ che tutto sommato accettavano lentezze e disservizi senza troppo protestare (che vuoi?, sono pochi, li pagano una miseria…). Poi man mano le cose sono cambiate, quasi impercettibilmente. Ogni quattro o cinque anni un piccolo aumento magari ci scappava, e dopo un po’, sempre con tipica lentezza, arrivavano gli arretrati. E nessuno diceva niente. I più intraprendenti continuavano a cercare impiego nel privato o nelle professioni, nel commercio come nell’artigianato, rinunciando alla sicurezza del posto di lavoro in cambio della prospettiva di carriere più rapide e renumerative, o di rischiare di mettersi in proprio, con la prospettiva di cambiare decisamente la qualità della loro vita.
E così si è andati avanti ancora per qualche tempo. L’industria i commerci, le professioni tiravano ancora, se non alla velocità degli anni del boom, e, specialmente al Nord, erano ancora in molti a scegliere il privato. Fino ad arrivare alla fine degli anni Ottanta, perché nel decennio successivo, mentre rimanevano valide tutte le tutele precedenti, il pubblico si vedeva man mano riconoscere salari che aumentavano secondo una progressione superiore a quella del privato.
Poi lo stacco. Riprendo dal sito www.bruno leoni.it, Liberare l’Italia, un dato che trovo sconvolgente: “i salari pubblici sono cresciuti, tra il 1999 e il 2008, del 42,5%, contro il 24,8% degli occupati nel settore privato. Nella maggior parte degli altri paesi i salari pubblici e privati sono cresciuti invece in misura simile gli uni agli altri (per esempio, in Germania del 13,1% e 13,7%, rispettivamente)”.
Credo non ci sia bisogno di commenti Si tratta di un divario clamoroso che, altrettanto clamorosamente, non trova riscontri strutturali. Cioè la burocrazia statale è rimasta la stessa, autoreferenziale, ipertrofica, lenta, irta di trappole che sembrano studiate apposta per defatigare i cittadini. Sono cambiati soltanto gli stipendi. Per non parlare poi delle retribuzioni di cui sono beneficiari i quadri dirigenti cresciuti anche loro in modo esponenziale.
Ora mentre una parte dei lavoratori italiani vive in enormi ristrettezze e deve fare i conti con i licenziamenti a valanga, o con la cassa integrazione, c’è un altro popolo quello degli statali, che si gode indisturbato i propri privilegi.
Lo trovate accettabile?