Ci si riconosce al volo, basta uno sguardo. Siamo in tanti, tra ragazze a ragazzi, a compiere frequentemente la tratta ad alta velocità Milano – Torino – Parigi. Si finisce per conoscersi e confrontare le proprie esperienze durante quelle cinque ore di viaggio prima tra le Alpi e poi nella meravigliosa campagna francese che scorre dietro il finestrino.
Ci sono io, dottoranda di ricerca che mi occupo di storia contemporanea, c’è una ricercatrice marchigiana specializzata in letteratura italiana, c’è un ingegnere biochimico di Milano e un medico di Torino. Abbiamo tra i 27 e 35 anni, veniamo da città diverse, ma in comune abbiamo famiglie, progetti, desideri, tanta voglia di fare, la conoscenza di almeno due lingue straniere, e un futuro di precariato nel nostro Paese natale.
Davanti allo schermo del proprio portatile e armati di cellulare android, si lavora alacremente per non perdere tempo prezioso neanche durante la trasferta, ma non manchiamo mai di aggiornarci sulle reciproche novità professionali.
Luca, l’ingegnere biochimico, sta facendo una serie di colloqui a Parigi alla ricerca di un lavoro fisso, perché in Italia, a quanto pare, le imprese non sono intenzionate a investire in ricerca, neppure in un settore così importante. Chiara collabora con la Sorbona, con un progetto su Foscolo, che a quanto pare non interessa alle Università italiane. Emanuele, il medico, sta portando avanti progetti di ricerca all’avanguardia con diversi laboratori francesi e sta cercando casa a Parigi, nonostante gli affitti siano proibitivi (ma resta sempre la soluzione di condividere in due qualche minuscolo monolocale). E poi ci sono io, che sto scrivendo la mia tesi di dottorato in cotutela e che per ricerca mi trovo spesso a Parigi.
Siamo entusiasti di lavorare fuori Italia, è una esperienza meravigliosa, toglie un po’ di provincialismo, ci costringe al confronto con i nostri coetanei provenienti da altri Paesi, a parlare correntemente un’altra o più lingue diverse dalla nostra e ci apre un sacco la mente. Però un po’ di amaro in fondo resta e lo leggo anche negli occhi dei miei compagni di viaggio, così come tra le righe dei loro discorsi: ci sentiamo come se il nostro Paese ci avesse voltato le spalle. Ma come? Noi che abbiamo compiuto tutti i gradi della nostra istruzione in Italia, ora regaliamo i frutti alla Francia, all’Inghilterra, agli Stati Uniti. Che futuro ha davanti a sé un Paese che non investe in ricerca? Chi e cosa rimarrà in Italia? Riusciremo a rialzare la testa mentre gli altri Paesi corrono senza fermarsi?
Intanto, noi giovani protagonisti della mobilità internazionale, nell’Italia 2013, ci sentiamo un po’ come i migranti del passato, anche se in condizioni e contesti del tutto differenti e chi chiediamo: riusciremo a trovare un lavoro fisso in un altro Paese? A costruirci una rete di relazioni? E se saremo costretti a scegliere, sceglieremo famiglia o lavoro? Francia o Italia?