Andy Warhol abita nel nostro immaginario perché è riuscito a ritrarre l’anima ed il pensiero di un’America che parlava al mondo. Ha innovato l’estetica ed i linguaggi coniando espressioni iconiche geniali. E’ stato l’inventore di una vera e propria fabbrica di icone: le sue polaroid trasformate in opere d’arte attraverso la tecnica della serigrafia e ripetute, snaturate, trasfigurate hanno regalato l’immortalità ad una serie di personaggi che da famosi sono diventati mitici. Delle vere e proprie icone, simboli eterni del loro tempo.
Number one tra le icone, la più famosa di tutte dea di bellezza, fama, sensualità e morte è Marilyn Monroe, di cui vediamo in mostra la splendida Blue Shot, 1964, diva del cinema di cui lo stesso Warhol diviene cultore dopo la prematura e misteriosa scomparsa nel 1962, e che grazie alle sue opere è leggenda. In Marilyn più che mai emerge il tema della bellezza, intesa come celebrità, e della fine, della morte, come in tanti altri temi affrontati durante la carriera artistica da Warhol. Quello dei fiori, ripetuti un’infinità di volte è un altro tema dove la bellezza viene colta nel suo esplodere, nel suo ripetersi mentre è già pronta alla caducità. Anche le serigrafie con i teschi, realizzati dopo l’attentato di cui l’artista è rimasto vittima nel 1968 ed al quale sopravvisse per miracolo, testimoniano il fascino ed il terrore per la morte.
Durante la sua trentennale carriera egli svolge diverse attività: pittore, grafico di Vogue, Glamour ed Harper’s Bazaar, vetrinista da Tiffany, art director della fotografia, sceneggiatore, regista, scrittore, fondatore della Factory (luogo speciale sito sulla quarantaduesima strada di NY negli anni tra il 1962 e il 1968, laboratorio, officina di idee dove avveniva di tutto, si giravano film, si scrivevano libri e canzoni, ma giravano anche droga e alcol e si svolgevano orge). Il dono speciale di Andy era la cosiddetta ‘Ingenuinity’, termine difficile da tradurre in italiano, che sta per genialità ed ingenuità, quel non so che di indefinibile che sta forse a significare la capacità di guardare al mondo in modo sempre nuovo e di descriverlo con la semplicità e l’immediatezza di un bambino, con l ‘entusiasmo della scoperta ……
A Peter Brant, amico personale e collezionista delle opere di Warhol dobbiamo l’omonima monografica che dal 24 ottobre al 9 marzo 2014 è allestita a Palazzo Reale. Seconda tranche espositiva dell’Autunno Americano, presenta 160 opere che ci raccontano come Andy Warhol da Pittsburgh, classe 1928, abbia influenzato più di chiunque altro l’arte del Secondo Novecento, e soprattutto la comunicazione visiva. Dice Peter Brant, che è anche il curatore della mostra insieme a Francesco Bonami, che Andy dietro le quinte era una persona straordinaria, capace di condizionare chiunque incontrasse con la malia del suo insegnamento, che era religioso, serio e normale, molto lontano dall’immagine del genio drogato della pop art che è passata alla storia.
In mostra anche la serie dedicata alla famosa zuppa Campbell’s, che Andy adorava a mangiava ogni sera a casa sua da ragazzo, la serie delle sedie elettriche, trasformate dall’artista in un’icona, come un moderno crocifisso, le ‘Monna Lisa’ ripetute trenta volte, proprio per negare il concetto di stile appartenuto al dipinto più famoso del mondo, i dollari, vera e propria ossessione, forse a causa dell’infanzia vissuta in miseria e poi i suoi autoritratti, il Camouflage enorme del 1986 e l’ultima cena, ‘The Last Supper’ presentata nel 1987 a Milano (città dove ha sede il Cenacolo di Leonardo Da Vinci), pochi mesi prima di morire a seguito di un intervento chirurgico.
‘Morire è la cosa più imbarazzante che possa capitare, diceva Andy, perché qualcuno si dovrà prendere cura dei dettagli’….Sulla sua bara una spruzzata di profumo di Esteé Lauder e una copia di Interview…..