Quando avevo diciannove anni e frequentavo la terza liceo all’osannato Plana, mi capitò di leggere sul mio diario (l’unico in tutta la scuola a essere disegnato dal grande Jacovitti) che la notte del 29 giugno a Camino, sugli spalti di un celebre castello, appariva il fantasma di un decapitato. In coda ci riferirò degli esiti patetici di una spedizione in loco, nata proprio da quella segnalazione.
Al momento, grazie ai materiali di un grande amico che purtroppo non è più, Teresio Malpassuto, rievoco per sommi capi la vicenda che portò alla creazione della leggenda in oggetto, peraltro immortalata dal famoso novelliere cinquecentesco Matteo Bandello.
Allora, in quel bel dì, il signore di Camino aveva delle discussioni con un castellano suo vicino per questioni di confine e, convinto come tutti i prepotenti di essere dalla parte della ragione, si era rivolto più volte alla Marchesa del Monferrato per far valere i suoi presunti diritti. La questione però non poteva essere risolta da interventi esterni, perciò, stancatosi della situazione, il nobile impetuoso pensò male di farsi giustizia da solo. Così, sottovalutando le conseguenze del gesto, riunì i suoi sgherri, attaccò all’improvviso il castello del litigante e, dopo avergli ucciso alcuni uomini, ne depredò le terre.
Quando a Casale si venne a sapere dell’accaduto, il Consiglio Marchionale gli intimò di sospendere subito le scorrerie, di rendere il maltolto e di presentarsi al più presto davanti al Consiglio per giustificare la sua azione.
Il nobile, per tutta risposta, andò a compiere una seconda incursione a mano armata, uccidendo ancora più uomini, razziando tutto quanto era razziabile e disprezzando pubblicamente gli ordini ricevuti dal Consiglio. Dopo la sanguinosa presa di posizione, gli furono concessi cinque giorni di tempo per presentarsi a Casale e discolparsi. In caso contrario, non soltanto sarebbe stato privato del feudo, ma sarebbe stato giustiziato mediante decapitazione.
Al nostro, irruente e vanaglorioso, le minacce risuonarono talmente ridicole che, in dispregio assoluto della volontà del Consiglio, tornò di nuovo nelle terre del vicino, spargendo ovunque la morte e mettendo ogni cosa a ferro e fuoco. A questo punto la giustizia non poté esimersi dall’intervenire e, prima che il cocciuto signore potesse fuggire per ripararsi in qualche altro rifugio più sicuro, il castello di Camino venne cinto d’assedio da un notevole contingente di truppe della Marchesa del Monferrato. La devota moglie Camilla, che adorava il nobile e prepotente consorte, tentò di portargli delle vettovaglie perché potesse resistere all’assedio, ma l’attentissima guardia attorno al castello gliele requisì. Camilla si rivolse allora a un carissimo amico del marito, un nobile francese, perché intercedesse presso la corte del Monferrato. Ma tutto risultò inutile: il castello fu conquistato e il ribelle, come da promessa, venne decapitato.
Camilla, che viveva nel suo palazzo a Casale, alla terribile notizia cadde in ginocchio e per il gran dolore ci restò secca.
La leggende, che di solito nascono a ridosso di eventi cruenti accaduti negli antichi castelli del Piemonte, in questo caso sono due. La prima recita che, quando ricorre il giorno della decapitazione, fissato dalla tradizione al 29 giugno, a mezzanotte in punto nel castello di Camino si senta un rumore strano come se qualcosa di pesante venisse trascinato attraverso tutte le camere. Si tratterebbe della moglie Camilla intenta a trasportare fuori del maniero il corpo del suo amato iracondo per portarselo a Casale e tenerselo per sempre vicino. La seconda è quella, riportata a suo tempo nel mio diario scolastico impreziosito dalle vignette del Jacovitti, che vuole che il fantasma senza testa si mostri nel corso della notte suddetta, peraltro già di per suo famosa data magica.
Alla fine degli anni Sessanta, a me non sembrò vero e, con il solito gruppo di fedelissimi, ci recammo a Camino proprio in quella data, di notte, e iniziammo, strisciando sull’erba, una manovra di avvicinamento degna di un commando di marines in sbarco a Okinawa. La cosa durò almeno un paio d’ore, data l’impervia difficoltà naturale del luogo, mentre in verità rumori più che strani con altrettante sospette luci provenivano dall’interno del castello. Quando finalmente giungemmo in posizione tale da poter scrutare quanto stava succedendo là dentro, ci accorgemmo con stupito scoramento che nel castello, abitatissimo, si stava tenendo una grande festa con Jaguar e Maserati che andavano e venivano, trasportando folle di gente ben vestita come si conveniva a una festa nobiliare. Lerci di fango e di clorofilla, qualcuno puzzando pure di aroma letamoso, alzammo in silenzio i tacchi, convinti per quella volta che gli unici fantasmi della situazione eravamo noi.