Roba da cinema, si diceva allora, e visto che il materiale per una bella pellicola c’era, Carlo Lizzani il film lo ha fatto davvero. Così la vicenda criminale della banda Cavallero è diventata sul set Banditi a Milano, nel 1968, in piena epopea spaghetti western, e con attori del calibro di Gian Maria Volonté, Tomas Milian, Don Backy, e Carla Gravina. Il film prese le distanze dall’intrattenimento un po’ di serie B del poliziottesco che dominava in quegli anni e dopo le tracce un po’ sconnesse lasciate dai cosiddetti musicarelli con protagonisti cantanti inventatisi attori, da Gianni Morandi, a Little Tony, Albano e compagnia bella.
Banditi a Milano fu capace di mietere a piene mani da una realtà che non si pensava così truce come la finzione filmica.
Quale realtà?
Correva l’anno 1967, era il 3 ottobre, con l’anno scolastico appena iniziato e già pronto a festeggiare con un giorno lontano dai banchi il primo santo del corso di studi, san Francesco. La televisione trasmetteva in bianco e nero, e iniziava i suoi programmi nel tardo pomeriggio con la TV dei ragazzi. In quei giorni non era prevista alcuna variazione alla programmazione quotidiana, nonostante l’attenzione della cronaca fosse calamitata da un avvenimento di straordinario effetto: la fuga di Pietro Cavallero e Sante Notarnicola, dopo la sanguinosa rapina di Milano al Banco di Napoli in Largo Zandonai
Da otto giorni i due banditi erano ancora uccel di bosco. E tutti si domandavano dove fossero finiti.
Ancora un passo indietro, al 25 settembre, quando una Fiat 1100, rubata all’ultimo momento in un posteggio poco distante dall’obiettivo, si ferma di fronte alla banca prescelta. Sono in tre, oltre a Cavallero e Notarnicola, alla guida si distingue Adriano Rovoletto. A lui il compito di aspettare in macchina, motore acceso, mentre i complici con grande rapidità e determinazione sono destinati a entrare nell’istituto bancario, urlare, minacciare, arraffare soldi e sparire.
I tre sono ormai una banda di professionisti. Arrivano da Torino, la capitale operaia, cuore dell’immigrazione meridionale al nord, ricca di fermenti ideali e tensioni sindacali. Sono lavoratori come tanti, con le mani sporche di grasso e il vestito buono che si indossa solo la domenica. Parlano di politica. Pretendono di conquistare una società e una vita diversa. Li sorregge un mito anarchico e l’idea che svaligiare banche sia uno sberleffo e uno schiaffo al capitale. Per loro rapinare è dare una risposta proletaria al boom economico degli anni sessanta. Robin Hood alla catena di montaggio.
Il loro campo d’azione è il Piemonte, la barriera di Torino, con alcune incursioni nel milanese. Ne avevano alle spalle sedici di rapine, compiute in quattro anni, e una lunga scia di sangue a ricordare le loro imprese. Fu però con la diciassettesima che si incrinò il loro miraggio rivoluzionario. Quel 25 settembre qualcosa va storto, un commerciante nei paraggi nota movimenti strani in banca e avvisa la polizia. I banditi fanno in tempo a recuperare un bottino di quasi cento milioni, oro nel 1967. Poi inizia la fuga. Si scatena un inseguimento per ben 12 chilometri, che trasformò Milano in un sobborgo alla Chicago anni venti, con i gangster a sparare colpi di mitra sui passanti per farsi largo, auto incidentate, sirene, urla, gente a terra. Panico e violenza. Risultato, tre le vittime innocenti, e più di venti feriti fra ignari passanti e forze di polizia.
Il dramma e l’avventura cinematografica si mescolano in un calderone esplosivo. Sarà un albero, l’immagine classica dello stop dopo una lunga corsa sia nei film d’azione che in quelli comici, a bloccare i fuggitivi, dopo essere stati speronati da una Fiat 850 di due poliziotti in borghese.
Rovoletto, ferito, apre il sacco. Donato Lopez, il quarto della compagnia, minorenne, viene arrestato a casa sua il giorno dopo, mentre per porre fine alla carriera criminale di Cavallero e Sante Notarnicola parte una gigantesca caccia all’uomo.
Ad Alessandria compete il suo ruolo geografico ufficiale di quell’epoca (oggi non mi pare più che qualcuno ne usi la definizione) ovvero di cuore del triangolo industriale e commerciale tra Genova, Torino e Milano. La campagna alessandrina, dura e inospitale come il freddo di Russia venticinque anni prima, blocca l’avanzata dello straniero. In un casello ferroviario tra Valmadonna e Valenza Po i due criminali vengono arrestati, senza alcuna resistenza. Pietro Cavallero, così come ce lo rimandano i commenti e le foto di allora sparate in prima pagina, esibirà la spavalderia del duro e un lungo sorriso che ne spezzava in due il volto magro e spigoloso. Per loro si aprono le porte dell’ergastolo, e quelle di un futuro tra l’eroico e il leggendario, a occupare un posto d’onore nell’albo delle rapine all’italiana insieme a banditi del calibro di Horst Fantazzini, Francis Turatelo, Luciano Lutring, René Vallanzasca, Cesare Battisti.
Cavallero il suo ergastolo lo ha scontato fino al 1992 nel carcere di Porto Azzurro, da detenuto modello, rappresentando una vita meno eclatante di quella del suo ex socio, decisamente più politica e “sovversiva”, e cercando anche una sua pace interiore prima di spegnersi cinque anni dopo.
Alessandria invece si può dolere di essere stata inconsapevole scenografia dell’inizio di una stagione di fuoco avviata con le prime azioni armate del terrorismo nostrano, un fenomeno che si è pensato vivere i suoi esordi con la strage di Piazza Fontana di due anni dopo. Forse perché non si sono voluti leggere i sintomi nell’aria, e i segnali dei quattro cavalieri dalle lunghe ombre non erano solo di fumo nel mezzo della prateria sconfinata.
Era un incendio vero e proprio che incominciava a devastare il bosco attorno a casa.