“Piacere, sono il famoso, o famigerato, Umberto Rapetto: come mi definì un alto dirigente dello Stato, che poi mi chiese di lavorare con lui”. L’attuale direttore dei progetti speciali di Telecom Italia, dopo 37 anni nella Guardia di Finanza e un congedo ‘burrascoso’ con i gradi di generale, e non poche polemiche, ha la stretta di mano vigorosa ed energica di chi ha sempre preso la vita ‘di petto’. Con un sorriso aperto ci racconta senza inibizioni e reticenze quarant’anni di vita e lavoro, che lo hanno portato ad essere un alessandrino di successo, ma lontano dalla nostra provincia. Naturalmente, essendo questi giorni ‘caldissimi’ sul fronte del passaggio di proprietà di quella che fu la nostra compagnia telefonica ‘di bandiera’, è anche un’occasione per avere, sul tema, un autorevolissimo punto di vista, interno all’azienda.
Generale Rapetto, con quel che sta succedendo in questi giorni, non possiamo che partire dall’ultima stazione del suo percorso professionale, Telecom Italia. L’arrivo degli spagnoli era nell’aria da tempo, ma come sempre a posteriori partono le analisi, e gli stupori. Lei che lettura dà della situazione?
L’azienda vive un momento difficile, come tutte le grandi realtà imprenditoriali in questo penoso contesto economico-finanziario, e fa male leggere giudizi tranchant che identificano come “morti che camminano” organizzazioni che invece hanno un patrimonio di competenze, professionalità ed idee che è davvero difficile individuare altrove. Certe facili diagnosi di condizioni irreversibili addolorano chi in azienda da tanti anni (o da ben poco tempo come me) onora la propria missione con impegno, dedizione, serietà e tanti altre innegabili pregevoli qualità che non corrispondono affatto alle descrizioni di quelli che sulle pagine dei giornali preferiscono titolare in maniera spettacolarmente macabra. Proprio in situazioni così complesse e irte di ostacoli, quelle che qualcuno impietosamente ha etichettato come cellule del “dead man walking” sapranno dantescamente riconoscere la propria “semenza” e “seguir virtute e conoscenza”. Sono convinto che la “gente Telecom” è pronta a dar vita a quel che Ulisse dice nella Divina Commedia: “e volta nostra poppa nel mattino, de’ remi facemmo ali al folle volo” così da sbalordire chi ne vede solo l’Inferno…
Lei in Telecom Italia è direttore dei Progetti Speciali. Con quale obiettivo?
Sono entrato in Telecom come consulente lo scorso anno, subito dopo essermi congedato dalla Guardia di Finanza. Con il presidente Franco Bernabè ci incontrammo per caso nel 2000, relatori allo stesso convegno, a Roma. E in quell’occasione mi disse: lei ed io prima o poi lavoreremo insieme. E’ stato di parola. In realtà io avevo già la valigia pronta, irrequieto come sono: pronto a firmare un contratto con una grande società americana che, tra l’altro, mi offriva tre volte tanto, e una serie di benefit incredibili, all’americana propria. Ma sono fatto così, mi piacciono le sfide e le persone che credono in me, per cui ho accettato. Bernabé mi ha affidato progetti importanti, dal commercio elettronico alla tutela dei minori in rete. Sto girando l’Italia, regione per regione. E’ entusiasmante. Naturalmente ora vedremo che accadrà.
Generale, da acquese in trasferta da tanti anni, cosa prova quando torna dalle nostre parti?
In realtà sono stato sradicato da queste terre che ero ragazzino. Avevo 14 anni, era il 1973: andai a frequentare il ginnasio dai salesiani, ad Alassio. Poi l’accademia della Nunziatella, a Napoli: senza avere la vocazione militare, in realtà. Ma fu una sfida: ne parlavamo sempre, da ragazzini, con un mio amico acquese: ‘noi andremo alla Nunziatella’. Il figlio di militari in realtà era lui: che fece poi il medico, e a Napoli ci finii io. Comunque torno sempre, quando posso, con grande piacere. Ho mamma ad Acqui, fratello a Nizza Monferrato, qualche amico in giro sul territorio. Non sono proprio straniero, insomma.
Generale, lei ha un modo di raccontare che trasmette entusiasmo. E’ stata una costante del suo percorso professionale?
E anche di vita direi. Sono fatto così, c’è poco da fare. Credo di aver ereditato la mia inquietudine, e la voglia di fare e di sperimentare da mio padre, che fu un personaggio genialoide, iper attivo tra Acqui ed Alessandria, e fece di tutto, a partire dal conseguimento di tre diplomi anziché uno, per dire: maturità classica per vocazione, e poi ragioniere e geometra perché erano attestati che gli servivano per lavoro. Comunque sì: ho sempre cercato di mettere, nel mio lavoro, tutto l’entusiasmo di cui ero e sono capace. E questo alla Nunziatella, come alla successiva Accademia della Finanza, a Roma: tutti raccomandati tranne il sottoscritto. Due esperienze opposte, peraltro: la Nunziatella è davvero esperienza eccezionale, si crea tra chi la frequenta uno spirito di appartenenza, di identità che va al di là dal conoscersi direttamente, per dirle. L’Accademia il contrario: si viene educati alla competizione individuale sfrenata. Io poi la frequentai negli anni dello scandalo dei petroli, dal 1978 al 1982. Clima tesissimo.
In Finanza è stato protagonista di successi eclatanti, ma anche al centro di non poche polemiche…
(sorride, ndr) Da Aosta a Portoferraio, da Trieste a Roma, come ufficiale di Finanza ho girato mezza Italia. Più cercavano di marginalizzarmi, e più mi ritrovavano al centro di progetti innovativi, in primis quelli legati all’innovazione informatica. Non entro in tutti i dettagli, naturalmente: ricordo soltanto che il Gat (Gruppo Anticrimine Tecnologico) da me fondato e guidato fino allo scorso anno, ha nel corso di un decennio portato a termine indagini complesse, di respiro internazionale: abbiamo aiutato e addestrato gli americani sul filone del computer crime, non so se mi spiego. Avevo una squadra di 35 assi, a fronte, per dire, di 1.300 addetti della polizia postale.
C’è un aneddoto, dietro la nascita del Gat: ce lo racconta?
Mettiamola così: forzai un po’ la situazione, creando la notizia prima del fatto in sé. E funzionò. Mi spiego meglio: era il 2000, e Sandro Mangiaterra, all’epoca inviato di Panorama, mi chiese di intervistarmi, per raccontare la mia storia. Accettai, e uscì un pezzo di 5 o 6 pagine, intitolato mi pare: “Io, cacciatore di hacker”. In cui, di fatto, raccontavo dell’esistenza di questo nucleo operativo dedicato al computer crime che in realtà era all’epoca solo un mio progetto, che mi veniva ‘rimbalzato’ da un ufficio burocratico all’altro. La notizia fece talmente scalpore, che il Comandante Generale della Finanza mi chiamò e mi disse: ‘va bene, hai vinto tu: ormai tutti credono che questo nucleo esista, mettilo in piedi sul serio”.
Strategia un po’ spericolata, ma vincente: e poi arrivarono successi importanti….
Decisamente: abbiamo condotto indagini che hanno portato alla condanna in via definitiva di hacker protagonisti di attacchi sul web a danno del Pentagono e della Nasa, ma anche a far emergere l’enorme vicenda delle slot machine non collegate alla rete telematica dello Stato. Un’ inchiesta che ha portato a condanne esemplari. E ho condotto indagini delicatissime anche sul fronte della vicenda Costa Concordia. Eppure ad un certo punto sono stato rimosso dal Gat, e mi fu proposto di tornare a scuola, a frequentare un corso in una struttura in cui ero docente da 15 anni. Insomma, lo scorso anno, il 29 di maggio (giorno fatidico nella mia vita: è il giorno in cui è morto mio padre, in cui mi sono sposato la seconda volta, in cui mia moglie fu assunta in Rai), ho deciso che era tempo di dire addio alla Finanza, dopo 37 anni, e di cominciare una nuova vita. Sa come hanno reagito? Mi hanno immediatamente promosso generale, attivando una procedura speciale, che mi impedisse di ripensarci: là dove normalmente sono previsti 12 mesi per chiedere di rientrare nel corpo.
Generale Rapetto, parliamo per chiudere della sua amicizia con Beppe Grillo?
Beppe l’ho conosciuto tramite amici comuni, e frequentato a lungo. Diciamo a partire dalla metà degli anni Novanta: lo aiutai anche a mettere a punto la prima versione del suo sito web. E’ un grande, ci divertivamo un sacco, e avevamo anche creato, ricordo, il governo Grillo ombra. All’epoca però non era ancora fidanzato con Casaleggio, diciamo così, e non c’era ancora il Movimento 5 Stelle. Ma certamente già aveva l’idea della deriva di questo Paese, e della necessità di cambiarlo. Il che non significa che io sia sempre stato in sintonia con tutte le sue scelte successive. Però ogni tanto ci sentiamo, è comunque un amico, e uno che fa sempre ciò in cui crede. Come me.
Ettore Grassano