Grano rosso sangue 2 – La vendetta di Bernardo [Il Superstite 156]

arona-2di Danilo Arona e Bernardo Beisso

Com’è forse noto alcuni scrittori “usano”, nel senso benevolo del termine, i loro amici per delineare fisionomie e caratteri di personaggi altrimenti da inventare. Io sono fra questi, ma vado anche oltre. Infatti li chiamo proprio con il loro vero nome perché il farlo mi facilita la vita. Qualche volta chiedo loro il permesso e altre volte mi astengo perché so che mi è accordato “a prescindere”.

Così è successo con il mio amicissimo Bernardo (Beisso) che ho calato alcuni anni fa nei panni di un Sé Stesso, abitante nei miei paraggi, che angustiato dall’incessante rumore notturno di un cannoncino a gas anti-storno, usciva all’ora del lupo per andare a distruggere l’infame aggeggio, ma il tutto degenerava in una strage a suon di roncolate con i contadini proprietari del campo. Pura (e catartica) fantasia che intitolai “Grano rosso sangue”, a memoria di King, e che passò anche nel libro “Ritorno a Bassavilla”. Ma che ho riproposto nei giorni scorsi in concomitanza con la ripresa delle ostilità sonore nella campagna di Castellazzo Bormida.

Stavolta però Bernardo si è impossessato del mio sanguinolento plot e lo ha prolungato con la sua consueta genialità. E non mi resta altro che proporvi quanto mi ha spedito via Facebook: un bel racconto fantastico, un po’ pulp, che a suo modo mette in guardia sull’abuso dei rumori molesti…

Caro Conte, sarebbe potuto succedere. I rapporti con i contadini erano già in bilico, maHorrorfarm la realtà che molte volte supera la fantasia darebbe per scontato che poi, dopo averli uccisi entrambi, Bernardo decidesse di sterminare l’intera famiglia affinché l’aggeggio infernale tacesse per sempre. Le streghe che si annidavano sul vecchio pero di casa lo avrebbero aiutato per non essere disturbate. Notti di agosto quando le streghe si assopiscono al frinire dei grilli e alle note di una chitarra provenienti dalla casa fatata….

Dopo due bicchieri di schietto “Gotturnio” mi sento di raccontarti come andò quella notte piena di sangue e misteri. La vecchia pendola di casa batteva l’una, la notte di fine luglio prometteva pioggia e una leggera nebbiolina di calore galleggiava nei campi. Ero deciso: la rabbia accumulata in quei mesi di botti diurni e notturni e il fallimento del primo tentativo di boicottare quel maledetto cannone mi davano la forza per farla finita una volta per tutte con l’arnese roboante. Niente canna che affievolisce ma due bicchieri di quella forte e clandestina grappa che Cesio mi manda da Trasaghis.
Cerco la mazza dal cuore di ferro ed esco. Da casa bisogna attraversare la ferrovia, un piccolo campo d’erba, saltare un fosso e passare la strada. Sono entrato nei possedimenti  nemici, ora devo fare attenzione perché il fruscio della stoppia può far rizzare le orecchie al cane tenuto adun metro di catena nel cortile che non può far altro che la guardia.

Ancora quindici  o venti passi; so dove devo arrivare. D’un tratto la luna fa capolino da una nuvola, il tempo di vedere un riflesso un lampo di ferro che volteggia sopra di di me. Per istinto mi scanso e colpisco con tutta la mia forza; il colpo va a segno all’altezza del fegato, ma non ho il tempo di constatare che un colpo di roncola mi colpisce di striscio e mi stacca di netto la manica della giacca da marine. Faccio una piroetta e picchio basso: l’ululato che l’energumeno emette mi fa capire che la sua rotula è andata in pezzi.

Il cane abbaia come fa sempre di notte e se la luna mi concede ancora dieci secondi finisco il lavoro, perché le streghe che abitano il vecchio  pero mi sono amiche e parlano alla luna. La stoppia imbevuta sotto i due corpi  manda strani riflessi bordeaux. La rabbia accumulata e la legittima difesa abbattono il mio fievole senso di colpa. A questo punto il lavoro va finito e quel cannone non sparerà mai più.
Entro nel cortile, nella casa padronale restano due fratelli, uno sposato e l’altro appartato nella parte vecchia del podere, quasi prigioniero; in paese si mormora che sia pazzo e che i fratelli lo tengano nascosto al mondo. Libero il cane che sente il mio odore e lo riconosce. La bestia si corica a pancia in su e scodinzola: è il suo modo di ringraziarmi e di sottomettersi ma io lo accarezzo perché ho sempre tenuto un rapporto paritario con gli animali. E lui corre via, libero e fiero della nuova libertà, ed esce dal portone principale.
Entro, la porta è stata lasciata aperta da quelli che non la varcheranno più, le scale, una prima porta: nessuno, una seconda mentre la apro sento il russare profondo di due persone, bene sarà più facile finire il lavoro. Ci metto poco tempo; non si accorgono neppure del passaggio dal sonno alla morte.
Esco. La notte si è fatta fresca e qualche goccia di pioggia cade sul mio giaccone ormai smanicato. Il lungo cortile, i portici del fieno, altri portici e la vecchia casa. Sembra abbandonata, ma so chi ci abita, un uomo anche lui alla catena. Entro e il fetore mi ricorda quello dei manicomi, di certi reparti dove uomini incatenati ai letti, povere bestiole sopravvivono in mezzo ai loro liquami.  Lui mi vede e spaventato incomincia a farneticare. Parla e batte le mani e poi si sdraia per terra.

Lentamente mi avvicino, ho sempre creduto che i pazzi abbiano una loro verità, non più sbagliata della verità di noi “normali”. Gli indico la porta aperta ed esco. Sono le tre e ho ancora del buon tempo per finire il lavoro. Passo dalle stalle e libero dalle loro celle anguste le tante mucche che si riversano nei campi. Ora il lavoro tecnico: cerco e trovo l’attrezzeria che, come sospettavo, è il deposito delle bombole per il cannone. Recupero i quattro corpi e ci impiego circa un’ora: sono le quattro passate e so che alle 5 e 30 l’alba schiarirà la campagna. Li deposito nel locale, quindi recupero il cannone e mi assicuro che le finestre siano ben chiuse, quindi imposto il timer dell’aggeggio. Tra dieci minuti scatterà il  congegno, ma questa volta non sarà un colpo di cannone bensì un cataclisma, una terribile deflagrazione di una quindicina di bombole  di propano.

Apro tutte le bombole e la puzza di gas mi intorpidisce. A stento esco e chiudo bene la porta dell’attrezzeria. Il cortile, il campo di stoppia, la strada, il campo, il fosso, poi quando sono sui binari della ferrovia un boato scuote l’aria. La vampata è così alta che intravedo i campanili  delle chiese di Sezzadio, un’aurora di fuoco che si stende per la campagna e illumina tutto ciò che  va dal casello FS sulla strada per Castelspina al casello FS sulla strada di Sezzadio.
Sono a casa, un terzo bicchiere di grappa a rasparmi la gola, una doccia calda e tre piatti di dolci da metter sotto al vecchio pero: le streghe hanno fatto un buon lavoro se lo meritano. A proposito, il cane è stato trovato e adottato e gira felice nel prato verde della casa fatata: nelle notti d’agosto le streghe assopite sul vecchio pero ascoltano il frinire dei grilli e il suono di una chitarra che da quella casa proviene.