Tra precarietà e incertezza, si riparte da dove ci si era fermati, in questo strano Paese che, cadesse il mondo, ad agosto si paralizza.
L’emergenza lavoro è di nuovo sugli scudi anche a casa nostra. Efficacissima, sul piano mediatico, l’occupazione della chiesa di San Michele (con la solidarietà di don Ivo) di una parte delle ex dipendenti di Costruire Insieme a cui non è stato rinnovato il contratto scaduto lo scorso luglio. Se possa essere un’iniziativa che porta anche risultati concreti lo vedremo però, perchè in quel caso, come in molti altri (i precari del mondo della scuola, i tantissimi cassintegrati di un sistema produttivo locale in fortissima crisi) si tratta di fare i conti con una coperta corta, cortissima, e che tende sempre più a restringersi.
Del resto, provate a pensarci: tutti noi ci siamo abituati ad avere, in casa, qualsiasi tipo di elettromestico (indispensabile, utile o assolutamente superfluo) a costi assolutamente irrisori. L’altro giorno ho comprato un ferro da stiro, ottimo, a 35 euro. Ce n’erano anche da 25 euro. Ossia il costo di un’ora di manodopera italiana.
Se i ‘Soloni’ della nostra politica, i guru dell’economia e pure i vertici del mondo industriale, vent’anni fa, avessero provato a guardare ‘in campo lungo’, a ciò che la globalizzazione e la delocalizzazione delle produzione avrebbero generato, forse qualche contromisura in più sarebbe stato possibile prenderla. Invece era tutta una corsa eccitante a trasformarci da popolo di operai a consumatori evoluti, esigenti, smorbi. “Il fututo del Paese è nei servizi avanzati, ad alto valore aggiunto”, dicevano quelli che la sapevano lunga. Sì, cari. L’alto valore aggiunto in questo Paese però è il parastato (peraltro rimasto al livello evolutivo degli anni Ottanta, appunto), o la filiera dei servizi di consulenza obbligatoria imposta alle aziende per legge. Avete presente tutto il mondo delle certificazioni di qualità, vero? Beh, non si offenda chi lo fa con scrupolo ed onestà, ma ben sappiamo che, nella gran parte dei casi, si tratta di produrre scartoffie e timbri inutili, con sopralluoghi di routine, e via dicendo. D’accordo, in quel settore si saranno create decine di migliaia di posti di lavoro. Ma sono posti, non lavoro vero. E non sono servizi evoluti, scusate: è fuffa, è logica parastatale trasferita, delegata ai privati.
Ultima riflessione concreta. L’altro giorno ho parlato con un imprenditore. Uno bravo, e che nonostante tutto ce la fa. Ma che mi ha detto “se non fossimo innamorati del nostro lavoro, ci fermeremmo qui. E se non fossimo innamorati di questo Paese, dovremmo andare tutti in Austria, in Croazia”. Mi ha poi raccontato di lunghe visite ispettive del tal ente, e del tal altro, e alla fine di colori di una freccia segnaletica leggermente diversi da quelli indicati nel manuale, e così via. Io ridevo, lui un po’ meno.
Insomma, è legittimo che chi lotta dal basso per il proprio pezzo di pane quotidiano faccia ricorso a tutte le forme di lotta, occupazione e protesta per farsi sentire. Ma chi ha ruoli di maggior responsabilità si rende conto che viviamo in un “sistema Paese” (per usare un’espressione che fa fine e non impegna) completamente ‘incartato’, paralizzato, in cui politica e media festeggiano perchè si è finalmente riusciti a cambiare il nome alla tassa sulla casa, anziché mettere mano a riforme strutturali indispensabili?