Lo avevamo intuito anche ‘ad sensum’, annusando l’aria e chiacchierando in giro. Ma ora lo dicono anche le statistiche ufficiali, e il rettore: L’Università del Piemonte Orientale, sede di Alessandria, è bella ma non piace. Ha tutte le carte in regola, quanto a valutazioni dei parametri ‘tecnici’, soprattutto sul fronte dei corsi di laurea di tipo scientifico (dall’informatica alla chimica), ma senza trascurare scienze politiche e giurisprudenza.
Eppure non decolla. Anzi, a ben interpretare le parole degli addetti ai lavori serpeggia non poca preoccupazione sulla sua ‘tenuta’, in termini di iscritti: che, se sommata alla difficoltà nel reperire risorse (anche per il venir meno agli impegni presi, per note cause di forza maggiore, da parte di Provincia e Comune di Alessandria: ma certamente non solo per quello), potrebbe generare un mix esplosivo. Vedremo con quali conseguenze, nel medio periodo.
Ma perché l’Università alessandrina non seduce gli studenti? Perchè, insomma, non solo non attrae neo dipomati di altri territori, ma neppure riesce a ‘trattenere’ gli alessandrini doc, che spesso preferiscono puntare altrove?
Naturalmente le motivazioni sono diverse, e ogni persona avrà, legittimamente, la propria.
Ricordo che, quando partirono i primi corsi di Scienze Politiche (anno di grazia 1987, quello della mia maturità, tra l’altro. E di quella del coautore di questo magazine, Andrea), trattavasi assolutamente di esamificio un po’ da todos caballeros. Ci sono passato, per poi allontanarmene un anno dopo. Meglio fare il pendolare su Torino, almeno per me all’epoca.
Si potrebbero fare tante riflessioni, nobili e anche non (come sempre) sulle motivazioni che spinsero, nei ruggenti anni Ottanta (“siamo la quinta potenza economica mondiale”, diceva Craxi mandando al contempo tutti in pensione a 45 anni. E noi ci credevamo: Bengodi esisteva, ed era qui da noi), alla creazione in tutta Italia di tanti piccoli atenei di provincia, con una logica da “ogni territorio si produca le professionalità di cui ha bisogno”.
E, per conseguenza, interrogarsi sulla (scarsa) capacità che l’alessandrino ha avuto di intercettare i bisogni reali delle imprese locali, per poi approdare come conclusione al fallimento culturale del progetto Università. Nel senso che oggi, 26 anni dopo, ancora Alessandria non è vera città universitaria. C’è poco da fare. Ed è questo, credo, ciò che essenzialmente spinge ancora molti alessandrini ad andare a formarsi altrove. E, naturalmente, a maggior ragione tiene lontani gli studenti ‘extraterritoriali’.
Insomma: vi pare che un diciannovenne in gamba, in un mondo ormai senza confini, e con la netta percezione di vivere su un territorio ‘dissestato’ (ma assai prima che il comune fosse dichiarato tale: quella semmai è stata la ‘certificazione di qualità’, a posteriori, di uno stato di cose), possa avere come personale ambizione quella di mettere radici qui, senza neppure provare ad ‘annusare’ il mondo? Alessandria è oggi una città che non ha più un teatro, i cinema chiudono uno dopo l’altro, non c’è dinamismo culturale nè economico e almeno 5 sere alla settimana sembra di vivere in un dormitorio neanche militare (magari, ci sarebbe comunque fermento), ma della terza età.
D’accordo: le statistiche sono importanti, e siamo tutti contenti del fatto che i neolaureati alessandrini guadagnano mediamente 50 euro in più della media nazionale. Ma le statistiche sono fredde, e non sono in grado (per fortuna) di contenere, raccontare o rappresentare i sogni e le speranze di ragazzi di vent’anni.
Francamente al posto del rettore proverei a studiare, come interessante fenomenologia, chi sono coloro che scelgono comunque di iscriversi all’università di Alessandria, piuttosto che chiedersi come mai gli altri non lo fanno.