“Quando parlate, scrivete o pensate all’ignoranza, è fondamentale essere il più precisi possibile.”
S. Firestein, “Viva l’ignoranza. Il motore perpetuo della scienza”, Bollati Boringhieri, Torino 2013.
L’espressione che va di moda negli ultimi tempi tra i principali attori della politica nazionale, dal Presidente Giorgio Napolitano al Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, è quello della «stabilità politica». Entrambi, pur da pulpiti diversi e con riguardo a questioni differenti, guardano ai problemi dell’Italia con un occhio rivolto al Governo Letta-Alfano, auspicando appunto la «stabilità politica». Ora, se il termine «politica» non presenta particolari elementi di ambiguità, non so quanti siano invece consapevoli del fatto che il termine «stabilità» si presta a più di una interpretazione. Per il dizionario Devoto Oli, il sostantivo «stabilità» starebbe ad indicare “la presenza di requisiti tali da garantire una condizione di equilibrio costante ed invariabile, identificabile nella resistenza a qualsivoglia sollecitazione esterna di carattere fisico o chimico”. Nella sua accezione figurativa, poi, la condizione di stabilità trova applicazione anche in campo “morale, politico, economico”, come nel caso, appunto, della “stabilità di un governo”.
Senza entrare nel campo della fisica o della matematica, campi nei quali la definizione di stabilità richiede conoscenze che non è il caso di approfondire, a me pare che l’equilibrio su cui si regge il governo Letta-Alfano sia tutto tranne che costante ed invariabile. Non è costante, perché si basa sul reciproco ricatto dei partiti su cui si regge l’anomala maggioranza che lo sostiene. Non è invariabile, perché si regge su un’idea di «larghe intese» ambigua e non da tutti condivisa. Le vicende legate alla moralmente deprecabile deportazione della moglie e della figlia di un dissidente kazaco e al respingimento da parte del Senato della mozione di sfiducia del Ministro dell’Interno Alfano è, da questo punto di vista, esemplare. Pare ormai assodato che il Ministro Alfano abbia mentito sull’eventualità che i fatti siano avvenuti a “sua insaputa” (va da sé che il Ministro Scaiola, l’inventore della formula giuridica utilizzata per dichiararsi estraneo alle vicende che lo vedevano implicato fu poi costretto alle dimissioni) e che i parlamentari del PD, al fine di assicurare la stabilità del governo, si siano comportati non diversamente dai parlamentari del PDL quando furono costretti, al fine di non mettere in discussione la stabilità dell’ultimo governo Berlusconi, a votare la mozione che sosteneva che la giovane Ruby detta Rubacuori fosse la nipote di Mubarak (e poi si è visto come tutto ciò non sia servito gran che). Le bugie, secondo un vecchio adagio, hanno le gambe corte e far dipendere la stabilità politica di un governo da una bugia non è cosa saggia. La perdita di credibilità e di fiducia che ne consegue, come le ultime elezioni politiche hanno ampiamente dimostrato, può far perdere qualche milione di voti.
Con un’immagine molto efficace, la rappresentazione dei “requisiti tali da garantire una condizione di equilibrio costante ed invariabile” come quelli fatti propri dalla definizione accolta dal Devoto Oli, viene illustrata su Wikipedia come “una palla nel fondo di una valle”, mentre la stessa palla posizionata sulla sommità di una collina definisce un equilibrio instabile. Ecco, di tutto si può dire del governo Letta-Alfano, tranne che il suo precario equilibrio garantisca la stabilità del sistema politico.
Da quando è nato, infatti, il «governo delle larghe intese» è stato sottoposto ad una serie di sollecitazioni, sia interne che esterne alla maggioranza che lo sostiene, che fino ad ora non hanno impedito il ritorno ad una posizione di equilibrio del sistema (che, ripeto, è precario e con una durata limitata prestabilita), non perché non esista un’alternativa, ma per consentire il mantenimento al potere di una destra sconfitta, che come tale non dovrebbe più essere al potere, e di una sinistra non vincitrice, destinata o a cambiare radicalmente, o a implodere in breve tempo. In realtà, come più di un commentatore ha rammentato, un’alternativa esisterebbe: quella di un governo di minoranza avente l’obiettivo limitato di rimuovere quella legge elettorale che tutti dicono di non volere, ma che ha consentito a tutti i partiti e al Movimento 5 Stelle di far eleggere un Parlamento di nominati, per poi riportare il paese a nuove elezioni con una legge (nuova o vecchia che sia) che consenta agli elettori di scegliere i propri candidati.
In tutto ciò la rielezione di Napolitano a Presidente della Repubblica, che con l’esperienza del governo Monti aveva già creato le premesse per le « larghe intese», ha avuto un ruolo non secondario: l’elezione di un Romano Prodi o di uno Stefano Rodotà, con la rottura degli equilibri politici che ne sarebbe conseguita sia a destra che a sinistra, avrebbe con ogni probabilità creato le condizioni per il raggiungimento di una reale stabilità di governo. L’attuale situazione di equilibrio instabile e precario, invece, che ha avuto peraltro il merito di far apprezzare agli italiani (ma anche di “bruciare” come è accaduto con Mario Monti), un possibile candidato alla Presidenza del Consiglio come Enrico Letta – dimostratosi all’altezza di guidare il Paese forse più e meglio del Sindaco di Firenze -, procrastina soltanto di qualche tempo l’inevitabile soluzione del problema.