Giovanni Drogo, giovane ufficiale di belle speranze, prese servizio alla Fortezza Bastiani, la cittadella nell’immaginario di Dino Buzzati, certo che l’incontro scontro con i suoi nemici gli avrebbe permesso di mettere in mostra tutto il suo valore di militare. Senza avere ancora ben chiaro che il Deserto dei Tartari lo avrebbe svuotato di ogni sua strategia, mantenendosi cinico osservatore di ferree regole militari. Fino alla distruzione, fisica e psicologica, deii soldati di stanza nella fortezza. Nessun nemico apparirà all’orizzonte, ognuno resterà paralizzato in una vita impantanata nel concetto del proprio valore senza poterlo mai dimostrare. Ma, allo stesso tempo, tutti si ritrovano incapaci di fare un passo indietro. Estranei alla propria realtà.
Stranieri. Come forse la maggioranza degli alessandrini ormai sbigottiti e impotenti di fronte a un cambiamento sociale al quale si sono presentati del tutto impreparati, stritolati tra i tentacoli della crisi globale da un lato, e dall’altro tra il perdurare di incompetenza amministrativa e un malaffare della politica che troppo spesso in questi anni ha rasentato il labile confine dell’illegalità.
La città è raccolta all’interno di spalti riesumati dagli archivi del seicento spagnolo e si prepara, più di altre, a fare i conti con un’etica sociale sfuggita al controllo di una cultura adeguata, infarcita di promesse, di perbenismo ipocrita specchio di campagne elettorali basate sulla presunzione del “saper fare” di personalità mediocri, tollerante verso le mille speculazioni edilizie che hanno creato mostri in periferia degni solo dei lavori di ristrutturazione del centro urbano che oggi già stanno cadendo a pezzi. Morto il teatro, morto il commercio da sempre testimone della cultura cittadina, così come pure i servizi ai cittadini. Uccise le speranze dei giovani, non tanto di trovare un lavoro, quanto di ricevere a fine mese lo stipendio dovuto alle loro fatiche, fenomeno scandaloso in sensibile aumento anche tra ditte importanti del territorio che non retribuiscono il dovuto a chi produce per loro sempre mascherandosi dietro la crisi, problemi di bilancio e a quant’altro ci si può aggrappare pur di non mettere mano al portafoglio.
Tasse alle stelle, disoccupazione, immondizie, crateri nelle strade, mezzi pubblici da dopoguerra, inquinamento ai livelli a rischio salute.
E la città sembra assuefatta, accondiscendente a una logica che ci ha messo con le spalle al muro e che deve anche dimostrare di saper alimentare grazie alla spontanea sudditanza. Le voci che vogliono portare alla guarigione sono le stesse protagoniste della malata organizzazione collettiva degli ultimi due decenni. E in questo crescendo di disagio, arrivano, come ciliegine sulla torta, gesti di straordinaria follia individuale. Danneggiamenti alle cose pubbliche, colpi di pistola alle persone. Alla città sembra non restare altro che discutere se quei comportamenti appartengano a un’etnia piuttosto che a un’altra.
Ma nulla sembra fermare il processo di desertificazione ormai in atto, quello del pensiero, dell’anima e del percorso che ha segnato la cultura e la personalità di una collettività intera. Una città disertificata che ha bisogno di acqua come le fontane create negli anni della sua storia architettonica, fontane asciutte al cui interno emergono solo le lordure sul fondo. Mentre al contrario, l’acqua è in grado di portare vita, musicalità, armonia anche allo spento e spaventato esercito di alessandrini, chiuso sempre di più tra le mura del proprio essere, asserragliato nella propria cittadella immaginaria, la Fortezza Bastiani di noialtri, a sforzarsi di scrutare l’arrivo di soccorsi che tardano. O di vedere in faccia il nemico. Senza voler accettare che il nemico più pericoloso è proprio quello chiuso dentro la divisa che indossa.
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