Fare

Soro Bruno 2di Bruno Soro.
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“Dire, fare, baciare, lettera, testamento.
Regole e svolgimento del gioco.
Un modo di pagare il pegno è quello di sottostare a delle penitenze che il
malcapitato, suo malgrado, sceglie. Ad occhi chiusi tocca le dita della
mano di un compagno, scegliendone uno: le cinque dita della mano corrispondono a dire, fare, baciare, lettera, testamento”.

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Fare è la parola d’ordine scelta dal Governo delle larghe intese. Ma, come scrive Stefano Lepri su La Stampa di venerdì 14 giugno, “Tutto insieme non si può fare: detassare le assunzioni dei giovani, evitare l’aumento dell’Iva già previsto per legge il 1° luglio, togliere l’Imu sulla prima casa, ridurre il «cuneo fiscale» alle imprese e chissà che altro”. Dire, poi, come in più di un’occasione ha ripetuto il Presidente del Consiglio Enrico Letta, che “il lavoro è al primo posto tra le priorità del governo” non significa di per sé avere le idee chiare sulla natura del «problema occupazionale». Ora, in assenza di una qualche ipotesi circa le cause del fenomeno, non è affatto detto che le misure intraprese con il «Decreto del fare» “vadano nella direzione giusta”, tanto più se a dire ciò, come tutti i telegiornali hanno ampiamente riportato, è il Presidente Berlusconi. Dire, fare.

Contrariamente al modo con il quale viene illustrato anche in taluni manuali di economia, il lavoro non è una “merce scambiabile in un ipotetico «mercato del lavoro»”. Così come il suo “prezzo”, il salario, non è “determinato dall’azione congiunta «della domanda e dell’offerta» di lavoro”. Questo modo di concepire l’occupazione fa riferimento ad una teoria economica contro la quale John Maynard Keynes, partendo dall’osservazione del disastro sociale creato dalla «Grande Crisi» a cavallo tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 del Novecento, ha elaborato la sua “Teoria generale dell’occupazione, interesse e moneta”, una teoria  che, ancorché avversata dai fautori del libero mercato, ha rivoluzionato il pensiero economico del Novecento.

Il fulcro della teoria keynesiana dell’occupazione risiede nel concetto di «domanda effettiva», identificato in quella situazione nella quale l’«offerta aggregata» eguaglia la «domanda aggregata». Presupposto di quella teoria è che l’attività produttiva richiede la preventiva predisposizione di una certa «capacità produttiva» – che va dall’acquisizione di un’area più o meno attrezzata e dei permessi necessari per la sua utilizzazione; alla costruzione o al riadattamento di un capannone; all’acquisto e all’istallazione degli impianti e dei macchinari occorrenti; al reperimento dei beni intermedi oggetto della trasformazione; all’assunzione del personale in grado di far funzionale l’impresa e così via -, unitamente ad un certo «lasso di tempo» (ad esempio si produce in primavera ciò che verrà venduto in autunno). Tutto ciò comporta che quando un’impresa assume la decisione di produrre una data quantità di merce fa necessariamente una stima di quanto ritiene riuscirà a vendere. In altre parole, esiste un gap temporale (più o meno lungo a seconda delle caratteristiche merceologiche dei prodotti) dal momento in cui l’impresa decide quanto produrre al momento della vendita, quando la stessa verrà a conoscenza del fatto se le sue previsioni erano giuste o sbagliate.

Posto che le cose funzionino in questo modo, i livelli occupazionali non possono che riflettere le «aspettative» delle imprese circa l’entità e l’andamento della domanda aggregata, vale a dire quanto gli utilizzatori finali decideranno di acquistare, sulla base delle loro motivazioni, di ciò che nel frattempo le imprese avranno già prodotto. Questa visione del processo produttivo è dunque caratterizzata da una profonda incertezza: per quanto si attrezzino per conoscere in anticipo la domanda per i loro prodotti, le imprese conosceranno solo a posteriori, quando sarà troppo tardi e troppo costoso porvi rimedio, se le loro aspettative si saranno realizzate. Un caso da manuale per comprendere come funziona l’economia cosiddetta «reale» (in contrapposizione all’economia «finanziaria», che ha caratteristiche di rischio alquanto diverse) è quello della messa in produzione da parte della FIAT della Stilo, un modello di auto che venne presentata nel 2001 come tecnologicamente all’avanguardia, ma che non avendo incontrato il gradimento del mercato italiano (ed europeo) ha causato all’azienda piemontese, dal momento che nei tre-quattro anni precedenti essa aveva finanziato gli studi, la costruzione del prototipo e l’attrezzamento degli stabilimenti Fiat di Cassino, un livello di indebitamento che ha messo a dura prova la capacità della casa costruttrice di rimanere sul mercato. E la crisi della FIAT di quegli anni è uno dei fattori che ha pesantemente influito sull’economia piemontese, fortemente dipendente dalla produzione automobilistica, a tal punto da provocare il progressivo scivolamento di questa regione nella graduatoria delle regioni italiane in base al reddito pro capite dalla quarta posizione del 1980 alla decima occupata nel 2011.

In quest’ottica, dunque, l’occupazione (quanto meno quella industriale) è strettamente dipendente dalle previsione delle imprese circa il livello della produzione, ed è illusorio attendersi che l’occupazione possa crescere (e corrispondentemente la disoccupazione diminuire), in seguito a misure volte esclusivamente a ridurre il costo del lavoro e/o ad aumentare la flessibilità degli addetti. Contrariamente a quanti ritengono che si possa influire sulla competitività delle imprese agendo esclusivamente sulle condizioni di lavoro, andrebbe sottolineato come la competitività (specie per quanto riguarda le esportazioni) si giochi più sulla qualità dei prodotti che sul prezzo degli stessi. Analogamente, la produttività del lavoro, strettamente legata al progresso tecnico, più che dalle condizioni di lavoro, dipende in maniera rilevante dagli investimenti in macchinari che incorporano le innovazioni. Pertanto, senza investimenti, i quali a loro volta sono legati in larga misura alle aspettative delle imprese circa l’andamento della domanda, le innovazioni non potranno essere introdotte all’interno del processo produttivo.

Il fare, quindi, non può prescindere dall’andamento della domanda che, quanto meno in una delle sue componenti più importanti, i consumi delle famiglie, i quali dipendono principalmente dal reddito e dalla ricchezza (sia reale che finanziaria). Forse, più che al dire e al fare, il Governo delle larghe intese dovrebbe porre mano, se non per lettera, quanto meno per testamento, al problema dei problemi dell’economia e della società italiana: quello della pesante disuguaglianza nella distribuzione dei redditi e delle ricchezze. Argomento del quale ha dato conto il premio Nobel Joseph Stiglitz nel suo ultimo libro “Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro” (Einaudi, Torino 2013), una sintesi del quale è apparsa, in collaborazione con Mauro Gallegati, sul numero 3/2013 di Micromega.

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