La metamorfosi del lavoro [Controvento]

Lavoro a chiamatadi Ettore Grassano.

Sul fronte comunale alessandrino si riaccende la polemica, e al centro della scena torna la questione dipendenti. Tutti da confermare, secondo i sindacati. No, gli esuberi ci sono, rilancia il sindaco. Anche se a qualcuno pare poco chiara la tempistica con cui l’assessore Ferraris (che non è certo uno sprovveduto) ha deciso di “quantificare” proprio ora il numero dei lavoratori delle partecipate che sarebbero di troppo. Per questo a qualche spirito maligno il dubbio del gioco delle parti può venire: ma staremo a vedere.

Certamente l’emergenza occupazione vera però sta altrove: tra la minacciata chiusura dell’Ilva, e quella invece già reale e concreta di tante altre realtà produttive, fabbriche e attività commerciali.

L’altro giorno è toccato a Cesare Miraglia, assessore al Lavoro della Provincia, tracciare pubblicamente un quadro dei dati occupazionali del 2012. Ed è una vera dèbacle, che quest’anno probabilmente peggiorerà ancora: altro che il “tira e molla” dei comunali alessandrini, abbiate pazienza. Non che naturalmente un problema cancelli l’altro: però manteniamo sempre saldo il senso delle proporzioni. E delle emergenze vere.

Lavori da un giorno, o per un week end, che diventano la norma. Solo pochi anni fa semplicemente saremmo scoppiati a ridere, di fronte alla proposta “vieni a lavorare due ore domani, due dopodomani, e poi si vede”.  Non, si intende, come breve periodo di prova, ma come soluzione (in)stabile e strutturata.

Secondo i dati resi noti nei giorni scorsi dall’assessorato al Lavoro di Palazzo Ghilini, invece, proprio questa è la situazione: e su 180 mila lavoratori attivi sul territorio provinciale, gli unici che crescono sono quelli neanche più precari, ma “intermittenti”. Il dato segna +719% rispetto al 2008, per dire: in sostanza quello è ormai l’unica nuova forma di occupazione. Oltre a “stracciarci le vesti”, allora, dovremmo probabimente provare ad interrogarci su cosa ciò potrà significare, in campo lungo. Aggiungendo un elemento di valutazione, che tutti peraltro diamo per scontato: il lavoro precario e “volante”, almeno da noi, è anche sotto pagato, e in genere dequalificato: non parliamo cioè di grandi professionisti che lavorano poco, ma con parcelle eclatanti. Ma di schiavi di nuova generazione, che formalmente non sono tali perché vengono versati gli oboli fiscali e previdenziali di legge, anche se nella sostanza entrambi a fondo perduto.

Quindi, che fare? Viviamo il paradosso di essere una società opulenta (più che negli anni Ottanta e Novanta, e ci pensate), ma in cui il reddito da lavoro sta diventando sempre meno significativo rispetto alle rendite finanziarie e di altro tipo. E, anche quando si discute di patrimoniali, si ragiona sempre su forme di tassazione di piccoli risparmiatori (piccola borghesia, si diceva un tempo: oggi va di moda ceto medio), non certo di prelievi significativi sui grandi capitali, “scudati” e al sicuro attraverso ben altri percorsi.

Addirittura, per tanti italiani lavorare, e farlo alle attuali condizioni “di mercato”, sta diventando anti economico: “prendono due multe, e sono già in passivo”, estremizza un mio amico, ma mica tanto. Perché fare salti mortali per lavoretti da quattro soldi, poco remunerati e per nulla gratificanti, anzichè dedicarsi magari alla cura dei nonni benestanti, e che preferiscono le cure di un nipote rispetto a quelle di un estraneo? Ma, naturalmente, si tratta di un modello economico da Paese, più che in declino, in caduta libera. E allora? Esistono percorsi che consentano di ridare voce, fiato e senso al lavoro, o dobbiamo prendere atto del suo declino hic et nunc (ossia qui e ora, per noi in questa epoca e territorio), e dedicarci sempre più ad altro?