I cacciatori di anime [Il Superstite 140]

arona-2di Danilo Arona.

La recente vicenda americana dell’orco Ariel Castro e delle tre ragazze da lui rapite e segregate per dieci anni riporta alla memoria la storia di Elizabeth Smart. All’età di quattordici anni Elizabeth Smart venne rapita a Salt Lake City (Utah), il 6 giugno del 2002. Fu preventivamente spiata, scelta e quindi prelevata nella sua camera da letto e da lì portata via come un pacco postale. Vista la vicenda dalla parte dei genitori, è senza dubbio un responso allucinante: il  bacio della buona notte e l’augurio di un sonno sereno, con la convinzione di rivedere la propria bambina la mattina successiva mentre fa colazione prima di andare a scuola.

Quel mattino non andò così. I genitori di Elizabeth si svegliarono e trovarono il letto vuoto della loro bambina. Lei era semplicemente sparita, in una notte qualsiasi, mentre l’intera famiglia dormiva inconsapevole.
Partì una ricerca svolta su scala nazionale che vide il coinvolgimento di migliaia di volontari. Un tempo che durò nove mesi, quello necessario a una nascita. Quindi l’insperata e felice conclusione con il ritrovamento della ragazza a pochi chilometri dalla casa dove era stata rapita. Era in compagnia di tal  Brian David Mitchell, un senzatetto di 49 anni, e della moglie di lui, Wanda Barzee, 57 anni. Nella dinamica della vicenda giocò un ruolo fondamentale la sorellina di Elizabeth, Mary Katherine, presente in camera da letto al momento del kidnapping. La piccola aveva raccontato che Elizabeth era stata costretta a uscire di casa da un uomo che la minacciava con un coltello. Ma non subito aveva messo a fuoco quel viso. Soltanto mesi dopo, nella sua mente  riaffiorò un vago ricordo. L’uomo che aveva visto nell’ombra della sua stanza quella sera, assomigliava molto, anzi era lo stesso uomo che aveva lavorato per breve tempo in casa sua, chiamato da sua madre a riparare il tetto.

Il 3 febbraio del 2003 la polizia diramò una descrizione dell’uomo, ma senza il supporto di un nome o una fotografia. Però la descrizione fatta dalla piccola Mary Katherine venne trasmessa dalle emittenti televisive di tutto il paese; i famigliari di Mitchell lo riconobbero e fornirono la sua foto alla polizia. Il volto dell’uomo invase così giornali e TV e a quel punto il gioco finì. Mitchell fu riconosciuto mentre passeggiava tranquillamente nelle strade di un sobborgo di Salt Lake City, Sandy, in compagnia di due donne. Una era sua  moglie Barze e l’altra Elizabeth. La coppia di vagabondi fu subito arrestata e la ragazza riunita finalmente alla sua famiglia proprio quando l’ipotesi della sua morte stava diventando sempre più reale Ma i genitori si ritrovarono di fronte un’altra Elizabeth, più alta e robusta – 15 anni compiuti e lontano da casa, una giovane donna – con i lineamenti del viso induriti e lo sguardo spaventato di chi, non per sua volontà, aveva visto e sopportato troppe cose indigeribili. E la polizia parlò pure di rapimento anomalo. La ragazza infatti non era rimasta costantemente rinchiusa ma aveva viaggiato a lungo con i suoi carcerieri fuori dallo stato dello Utah, sino a San Diego e ad Atlanta. Un  sequestro “on the road” che aveva comportato, dissero gli agenti, diverse notti trascorse campeggiando. Mitchell infatti – come in un romanzo di King – aveva velleità di “predicatore di strada” e girava per gli stati per diffondere la sua particolare versione della buona novella. Quella comprendente il rapimento e lo stupro di ragazzine.

Da allora, poco per volta, si sono spenti i riflettori su Elizabeth. Non da subito. Ci sono stati corollari mediatici pressoché inevitabili; una gogna pruriginosa sul fatto che lei fosse affetta da sindrome di Stoccolma visto che avrebbe potuto fuggire agevolmente in più di un’occasione, ma non lo fece mai; uno scandalo giornalistico legato alla cessione di dettagli censurati arrivati chissà come sulle scrivanie del New York Times.

Il fatto è che Elizabeth non era più l’Elizabeth che aveva salutato i suoi genitori con un bacio prima di quella notte di giugno. Non lo sarebbe mai più stata, Oggi è una donna chissà con quali e quanti problemi. Mitchell al processo disse che l’avrebbe sposata. La faceva andare in giro con un velo bianco che le copriva il viso (alla maniera dei fondamentalisti islamici) perché nessuno doveva “lordare la sua purezza con lo sguardo”.

Là fuori è un brutto mondo. In genere si è sempre un po’ dubbiosi sulle vicende dei kidnapper da camera da letto. Non si arriva a concepire che qualcuno possa scalare una finestra, entrare e portarti via la figlia dentro un sacco, un traslato contemporaneo del mito del babau. Spesso gli investigatori sbirciano dentro la famiglia, come successe per quel tristissimo caso della piccola inglese sparita nell’Algarve.

Eppure capita, bisogna farsene una ragione. Devo farmela anch’io che sono un cultore diBlack Magic woman leggende contemporanee e spesso devo andare in giro a sostenere che certe storie sono, appunto, “storie”. Sulle strade del pianeta camminano cacciatori di bambini: non esisterebbe un numero così spaventosamente alto di scomparse. Che non sono soltanto quelle che ci mostra la Sciarelli a “Chi l’ha visto?” e le cui punte più drammatiche e sconcertanti restano ancora quelle di Angela Celentano e di Denise Pipitone, ma sono equamente distribuite per tutta l’Europa e in proporzioni ancor più grosse in America.

E’ uno dei più devastanti misteri di quest’epoca. Certo, ogni caso è diverso, fa da sé. Ma un filo rosso li unisce tutti sul filo di un’ipotesi folle: i cacciatori di bambini non sono dei solitari e si nutrono di un progetto comune. In un mio libro di qualche anno fa, Black Magic Woman, li chiamavo “cacciatori di anime”, sostenendo metaforicamente che l’anima del ragazzino, quella ancora intonsa e innocente, era il vero scopo del kidnapping.
Iperbole? Forse. Ma il caso di Elizabeth Smart – che è tornata – lo conferma in qualche modo. Lei è tornata, ma adesso è senz’anima. Come le povere vittime di Ariel Castro.