I
Le alte torri della miniera si confondevano con il grigio dell’alba.
Il frastuono degli argani e dei ventilatori riempiva l’aria. I cumuli di scarti carboniferi divenivano a ogni passo più imponenti, montagne nere e irregolari che nascondevano un orizzonte inafferrabile.
Il cielo del Belgio si andava rischiarando, una luce tenue e malata si faceva strada fra il fumo nero delle ciminiere, ma le ombre resistevano tenaci al giorno e tutto era grigio e stanco. La polvere di roccia e carbone lasciava un manto denso e acre che ricopriva ogni cosa.
Case. Baracche. Strade. Uomini.
Uomini che uscivano da quella ferita nella terra con il volto devastato, gli abiti disfatti e l’anima logora. Il bianco degli occhi e un debole sorriso brillavano luminosi nel nero della fuliggine. Un cenno, uno sguardo, un ultimo saluto per colleghi, amici, paesani, che lenti e silenziosi prendevano il loro posto.
Un altro cambio turno nella miniera di Marcinelle.
Giovanni si muoveva lento come ogni giorno, dondolando ritmico sotto il peso degli attrezzi. Gli scarponi avanzavano e lui in silenzio fissava l’oscurità della galleria farsi sempre più vicina. Pensava a casa sua, pensava all’Abruzzo, al sole che scalda e illumina il verde delle colline e al vento fresco della montagna pronto a spazzare via la polvere nera della sua fatica, ma soprattutto pensava a lei.
La seconda squadra raggiunse l’ingresso del pozzo numero uno. Gli uomini cominciarono a prendere posto sul grande ascensore mentre i cavi d’acciaio si tendevano pronti a rilasciare il loro peso. Si pigiarono l’uno contro l’altro muti e silenziosi mentre il frastuono delle macchine li stordiva.
Le porte dell’ascensore si chiusero. Un piccolo sobbalzo, uno scatto e la piattaforma cominciò a scendere veloce. La luce dell’ingresso divenne sempre più piccola. Le pareti di roccia nuda e irregolare scorrevano indistinte dinanzi ai loro occhi. L’oscurità li avvolse con un manto denso e uniforme, l’aria divenne pesante, il caldo aumentò.
Giovanni alzò la testa e vide l’ultimo spiraglio di luce svanire sopra di lui.
Il viaggio era iniziato.
Milano, 11 dicembre 1955
Moglie mia adorata,
siamo fermi a Milano da un paio di giorni, ci tengono in una caserma per farci fare le visite mediche, sono arrivati dei dottori dal Belgio per vedere se stiamo bene, ci fanno tutte le analisi e i controlli che manco il medico del paese me li aveva fatti mai. E poi se le visite vanno bene ci portano in treno in Belgio e lì ci danno il lavoro. Ma ci pensi amore mio… il lavoro! Che dalle parti nostre ero fortunato se trovavo da fare il manovale per un giorno a settimana, e lì in Belgio mi danno un lavoro regolare, mi danno da mangiare, da dormire e la paga, amore mio. La paga è altissima, il cartello appeso in piazza diceva che un franco Belga vale dodici lire, ma ci pensi! Giuro che quando ho visto quel cartello tutto rosa nella piazza del municipio quasi non ci credevo, le miniere del Belgio che cercavano operai italiani, a centinaia, a migliaia. Scusa se sono andato via di corsa ma non potevo perdere quest’occasione, basta con pane e patate a cena, basta con quelle tue gonne vecchie e che a forza di rammendarle cadono a pezzi, noi da adesso cominciamo a fare i signori. Ti manderò i soldi ogni settimana e vedrai che in un paio di anni ci compriamo casa e anche un pezzo di terra sotto alla collina del mulino.
Adesso devo andare amore mio, mi devono fare ancora delle altre visite.
Ti amo.
Tuo Giovanni.
II
Giovanni era in ginocchio.
La schiena piegata e storta, le braccia che tremavano sotto i fremiti del motopicco. Avanzava lentamente a carponi, centimetro dopo centimetro scavando la vena di carbone. Il caldo era asfissiante, a meno 975 metri mentre scendevano con l’ascensore si era dovuto togliere la camicia di fustagno, a meno 1035 procedeva strisciando per scavare sempre più in profondità. Le luci della sua lampada proiettavano un sottile cono di luce dinanzi a lui, la polvere si alzava dopo ogni colpo della punta di acciaio e si posava sul suo viso. Giovanni ogni tanto chiudeva gli occhi per non rimanere accecato e cercava di scansare la faccia dalle schegge di roccia. Le gocce di sudore gli scorrevano lungo la schiena lasciando dei solchi sul nero della fuliggine.
Giovanni si sentì tirare i calzoni, spense il motopicco voltando la testa e vide Salvatore. La faccia sporca e un largo sorriso.
“Giovà t’ho portato l’acqua.”
Giovanni strisciò all’indietro dalla ferita nella roccia. Si sedette tossendo violentemente la polvere che gli intasava i polmoni. Bevve avido dalla borraccia del suo amico.
“Vuoi che ti dò un po’ il cambio?” chiese Salvatore.
Giovanni lo guardò da sopra la borraccia e vide un ragazzino di appena diciassette anni, magro e ossuto, sporco di carbone ma con gli occhi vivi e luminosi. Lui e Salvatore venivano dallo stesso paese dell’Abruzzo, loro come un’altra ventina che lavoravano nella miniera. Al paese non si erano mai frequentati per la differenza di età, si conoscevano a malapena, ma lì lontano da casa, in un inferno fatto di polvere e fatica erano come fratelli. E come un fratello Giovanni lo trattò.
“No. Non ti preoccupare non sono stanco tu vai alla macchina manovratrice che fra un po’ dobbiamo cominciare a raccogliere il carbone e a mettere in sicurezza i cunicoli.”
Salvatore parve deluso ma non protestò. Recuperò la sua borraccia e si avviò a ritroso lungo il cunicolo.
Il caldo era insopportabile.
Charleroi, 15 dicembre 1955
Amore mio,
finalmente siamo arrivati in Belgio. Il viaggio è stato terribile. Tre giorni e tre notti chiusi in questo treno maledetto, pigiati come sardine, siamo centinaia da tutta Italia, ci sono calabresi e siciliani, marchigiani e veneti. Solo del paese siamo in cinque e mi hanno detto che coi prossimi treni ne saliranno ancora. Pare che il nostro governo si sia messo d’accordo con il Belgio, che loro hanno bisogno di operai e noi di carbone, così a noi ci mandano a lavorare su e in cambio scende carbone in Italia, ma in fondo va bene così l’importante è il lavoro. L’importante è la paga. L’importante siano noi amore mio. Aspetta ancora qualche settimana e ti comincerò a mandare i primi soldi e promettimi che la prima cosa che farai sarà andare a saldare i conti con i negozi, mi sono stufato di quell’arrogante del macellaio o dell’alimentari che ci guardavano come fossimo delle bestie e ogni volta che ci facevano un po’ di credito sbuffavano e si aspettavano che li ringraziassimo in ginocchio come se fossero dei gran signori e noi soli dei poveracci che chiedevano l’elemosina. Gliela faccio vedere io l’elemosina amore mio, ti prometto che d’ora in avanti nessuno ti guarderà più in quel modo, ti dovranno portare rispetto e quando entrerai in qualche negozio tutti ti dovranno sorridere e trattare come una signora.
Ti amo.
Giovanni.
III
I vagoncini erano stati riempiti di carbone fino all’orlo.
Gli uomini li avevano spinti lungo i cunicoli più alti ed ora erano pronti ad essere caricati. L’ascensore del piano 975 metri era libero e l’uomo addetto al carico cominciò a muoverli lentamente. Li allineava uno di fianco a l’altro sull’ampia piattaforma di legno, lavorava tranquillo senza scatti, consapevole che la sua giornata era lunga e che il caldo della miniera poteva piegare anche il più forte degli uomini.
Uno dei vagoncini si incagliò. Una ruota spezzata non lo faceva salire sull’ascensore. L’uomo del carico sbuffò e bestemmiò in un qualche accento del sud Italia, ma non si preoccupò più di tanto, finché lui non avesse dato il segnale di carico l’ascensore non sarebbe andato da nessuna parte. Si asciugò la fronte coperta di sudore, bevve un sorso d’acqua e affrontò di nuovo quel maledetto carrello. Prese a spingere con tutte le sue forze, il vagoncino si mosse di qualche centimetro, e poi ancora di nuovo, un po’ alla volta stava salendo sull’ascensore. L’uomo sbuffò ancora sorridendo, ormai era diventata una cosa personale fra il vagone e lui, in fondo si stava anche un po’ divertendo. Si raddrizzò un attimo per riprendere fiato e osservare il suo avversario.
La cosa non andava poi tanto male, il vagone era dentro per più della metà, ancora un piccolo sforzo e ce l’avrebbe fatta.
Un rumore di argani e macchine risuonò nella galleria. I cavi dell’ascensore si tesero all’improvviso. Un secco scatto e la piattaforma si mosse cominciando bruscamente a salire. L’addetto al carico prese a strillare impazzito, ma era tutto inutile, le sue grida si perdevano nel frastuono del tunnel. Si gettò sul telefono, ma nessuno rispose.
L’ascensore saliva inesorabile.
L’ultimo carrello sporgeva dal bordo e l’impatto fu inevitabile.
Il vagone si schiantò contro una condotta dell’olio. Il tubo si spezzò e i cavi del telefono e dell’alta tensione furono tranciati.
L’esplosione riempì l’aria.
Il fuoco e le fiamme illuminarono l’oscurità della miniera. Il calore si propagò a ondate asfissianti lungo le profondità del tunnel. L’olio incendiato schizzava ovunque, le fiamme risalirono lungo il tubo, un’altra esplosione riempi il pozzo, e poi un’altra e un’altra. Il fuoco raggiunse una delle vene carbonifere.
Le pareti della miniera si incendiarono.
Marcinelle, 25 aprile 1956
Amore mio,
spero che i soldi della scorsa settimana ti siano già arrivati. Sono felice di sapere che hai potuto dare una mano a tua madre per riscattare la terra. Hai visto che le cose si stanno aggiustando. Qui il lavoro e duro, non avevo idea di cosa fosse una miniera, e nessuno ci aveva avvertito o preparato, ma che vuoi noi siamo qui solo per lavorare e ai proprietari non frega poi molto di noi. Siamo solo braccia. Sono molto più importanti i cavalli, se succede qualcosa a un cavallo è un problema, se succede qualcosa a qualcuno di noi non è un problema, ci sarà sempre un altro treno di italiani pronto ad arrivare.
Ho deciso che finalmente me ne vado dalle baracche. Ho trovato una cantina in paese che mi affitta una camera, non ne posso più di queste baracche, sono umide e ci fa freddo, le hanno fatte i tedeschi durante la guerra e ci tenevano i russi. Erano un campo di concentramento. E adesso ci tengono noi.
In paese mi troverò sicuramente meglio, anche se non posso entrare nei locali, hanno messo tutti un cartello alla porta con scritto “Vietato l’ingresso agli italiani”. Ma sai che ti dico, chi se ne frega di entrare nei loro locali, anzi meglio, così risparmio più soldi e me ne vado prima. Torno prima da te amore mio adorato.
Ti amo con tutto me stesso.
Giovanni.
IV
Il fumo si propagò nella miniera.
La nube si mosse più veloce delle fiamme, riempì metro dopo metro tutte le gallerie. Le luci delle torce e delle lampade furono avvolte dal fumo nero del carbone.
L’oscurità fu assoluta.
Gli uomini procedevano alla cieca, correndo, cadendo, cercando una via di fuga che non esisteva. Urla e grida risuonarono nel buio della miniera. Voci che si cercavano, voci che imploravano, voci smarrite in un labirinto sotterraneo. I colpi di tosse si fecero sempre più frequenti, più forti, più cattivi. Il fumo penetrava inesorabile nei polmoni, bruciava gli occhi e la gola, riempiva ogni parte del corpo. Gli uomini tossivano cercando di opporsi, cercando di scacciare via quel nero di carbone, ma era inutile… lentamente cadevano a terra muti e agonizzanti, ancora pochi fremiti del corpo e il nero della polvere li ricopriva nascondendoli nella roccia.
Giovanni sentì Salvatore cadere dietro di lui. “Salvo ci sei?”
Una voce rispose dal buio “Si… ah… ci sono. Sono caduto.”
“Alzati cammina non possiamo fermarci.”
“Non riesco a respirare mi brucia la gola.”
Giovanni strappò un lembo della sua camicia che teneva ancora legata in vita e la porse a Salvatore. “Sputaci sopra e premitelo contro la bocca ti aiuterà a respirare. E adesso andiamo.”
I due uomini si misero veloci in cammino, mentre il calore dietro di loro aumentava.
“Ma dove stiamo andando Giovanni? Io mi sono perso.”
“Stiamo percorrendo la galleria sud-ovest, in fondo troveremo l’ascensore del primo tunnel.”
“E da lì possiamo uscire?” chiese speranzoso il ragazzo.
Giovanni fu onesto. “Non lo so. Non credo. Ma dobbiamo provarci.”
“Ma secondo te cosa è successo?”
“Non lo so. Qualcosa deve essere esploso e se non mandano qualcuno a prenderci subito siamo nei guai.”
“E se…”
“E se ti stai zitto e risparmi il fiato per correre?”
Salvatore tacque cercando di non farsi distanziare dal suo amico. Si muovevano veloci con una mano poggiata alla parte per cercare di vincere la paura dell’oscurità. Il caldo asfissiante e il sapore acre del fumo lì faceva ansimare, lacrimare, piangere, ma continuavano ad andare avanti alla ricerca di aria e di libertà.
Una flebile luce li fece sussultare. “E’ l’imbocco della piattaforma!” Gridò Giovanni.
I due uomini giunserò alla fine del tunnel, una voragine si apriva dinanzi a loro, si fermarono sull’orlo del baratro.
“E adesso?” chiese Salvatore.
“Adesso aspettiamo che arrivi uno degli ascensori di emergenza o una squadra di salvataggio.”
Una luce comparse nell’oscurità sopra le loro teste. Un flebile puntino giallo che si avvicinava rapido. Un sorriso di speranza si dipinse sul loro volto. Ma in un attimo fu gelato dalla consapevolezza.
Il corpo in fiamme cadde nel baratro passando davanti ai loro occhi.
I due uomini si ritrassero istintivamente.
“Dobbiamo andare via di qua, il fumo sta aumentando e non penso che arriverà nessuno da lassù.”
“E dove and…and…andiamo?” la voce di Salvatore era piegata dalla paura.
“Torniamo indietro e ci dirigiamo verso uno dei rifugi, ci chiudiamo dentro e aspettiamo che ci vengano a prendere.”
“Si…si” Salvatore era confortato dalla decisione di Giovanni “and…andiamo ai rifugi.”
I due uomini tornarono indietro scomparendo nel buio della galleria.
Marcinelle, 17 maggio 1956
Amore mio,
sono ormai cinque mesi che sono qui e già non ce la faccio più, il caldo, il fumo, gli orari interminabili mi distruggono, solo il tuo pensiero mi fa andare avanti, solo immaginarti nella mia mente bella e splendente come sei mi da la forza di scendere là sotto ogni giorno. Solo il pensiero che lo stò facendo per noi e per il nostro futuro mi convince a salire su quel maledetto ascensore. Ho pensato più di una volta di prendere e mollare tutto, ma il contratto è per cinque anni e se me ne vado prima di un anno mi mettono in galera. Alcuni ragazzi del Molise avevano cercato di andarsene e li hanno presi e mandati in prigione a Charleroi, sono tornati dopo tre settimane, li hanno costretti con la fame, non gli davano quasi nulla da mangiare e ogni giorno passavano a chiedere chi voleva tornare in miniera… alla fine non ce l’hanno fatta più e sono tornati, lì hanno messi all’estrazione nella più profonda delle gallerie e li controllano a vista.
Ma non voglio che ti fai pensierosa per me, stai tranquilla amore mio, non ho nessuna intenzione di finire in carcere e poi con la primavera le cose sono un po’ migliorate, almeno quando esco vedo ancora un po’ di luce, in inverno entravo che non era giorno e uscivo che era notte, mi sembrava di non vivere. Ma in realtà vivo. Vivo solo per te amore mio.
Ti amo
Giovanni
V
La porta del rifugio si chiuse dietro Salvatore.
C’è l’avevano fatta! Erano riusciti ad arrivare al rifugio sani e salvi. Insieme a loro c’erano una ventina di altri minatori, tutti coperti di polvere, tutti stravolti dalla fatica e dal fumo, ma tutti vivi. I colpi di tosse riempivano la piccola stanza, gli uomini si passarono velocemente la poca acqua rimasta e si sedettero stremati cercando di riposare. Una piccola lampada a gas rischiarava debole i volti degli uomini. Il pavimento del rifugio si trasformò in un unico e compatto tappeto di corpi umani. Dopo un attimo di smarrimento gli uomini cercarono di capire cosa era successo realmente, chi diceva che si era spezzata una condotta, altri che era esploso un deposito di dinamite. Tutti però erano convinti che presto sarebbero arrivate le squadre di soccorso, la compagnia aveva più di una squadra attrezzata con i respiratori e con le funi di acciaio e li sarebbero venuti a prendere.
Giovanni era seduto con la schiena poggiata al muro e lo sguardo fisso dinanzi a se.
“Ehi Giovà, che t’è preso non dici niente?” La voce di Salvatore era euforica, le quattro pareti del rifugio gli davano sicurezza e speranza.
“No. E’ tutto a posto, è solo che…” Giovanni era pensieroso e continuava a tenere gli occhi fissi sull’entrata. “E’ solo che pensavo alla porta del rifugio.”
Salvatore si voltò stupito verso l’ingresso. “E allora qual è il problema è solida ci proteggerà.”
Giovanni vide la speranza negli occhi di Salvatore, il sorriso del ragazzo illuminava la stanza più della lampada a gas. Giovanni tacque per qualche istante e poi sorrise di rimando al suo giovane amico.
“Si lo so, è che sono stanco e ho bisogno di riposare”
“Vuoi che ti cerco un po’ d’acqua?”
“Non non ti preoccupare, mettiti a riposare anche tu e aspettiamo che ci vengano a prendere.”
Salvatore si girò su di un lato, la giovane età e la profonda stanchezza fecero il resto, si addormento in pochi minuti.
Giovanni rimase sveglio a fissare la porta.
Era forte, era solida, era robusta, ma… era di legno.
Marcinelle, 30 luglio 1956
Amore mio,
ho poco tempo per scriverti, sono in ritardo per la prima sirena, ma ci tenevo a dirti che non sto più nella pelle, da quando so che verrai qui da me mi sembra che le giornate non passino mai. Il giorno del tuo arrivo finirò prima il turno e verrò a prenderti alla stazione di Charleroi, non ti farò neanche poggiare i piedi a terra, ti prenderò in braccio e ti porterò via con me. Per la prima volta da tanto tempo vado a lavoro felice e ne esco ancora più felice sapendo che tu sarai qui con me. Vedrai che ci troveremo bene, e poi sarà per poco, non ti preoccupare, il tempo di mettere da parte ancora qualche soldo e poi ce ne torniamo a casa insieme, tu ed io. Per sempre.
Ti aspetto.
Giovanni
EPILOGO
La squadra di salvataggio ritornò finalmente in superficie.
Gli uomini buttarono a terra i pesanti respiratori e si inginocchiarono distrutti dalla fatica, il volto era stravolto e coperto di sudore, qualcuno strillò in francese, ma gli uomini non risposero.
Continuarono a guardare a terra in silenzio.
I cavi d’acciaio furono fissati a una carrucola a motore che cominciò a tirare con forza. I cavi risalirono dal fondo della miniera.
Il primo corpo fu adagiato con cura nello spiazzale antistante l’ingresso del tunnel, e poi seguì un secondo corpo e poi un terzo e un quarto, e poi ancora…
Erano legati con dei sacchi, lo stomaco gonfio dal gas e dal fumo, il viso nero del carbone, gli occhi bianchi sbarrati a fissare nel vuoto.
Dopo due ore il piazzale era completamente ricoperto di corpi. E dal fondo della miniera ne continuavano a risalire.
Giovanni e Salvatore furono amici e fratelli anche allora.
Il corpo di Giovanni fu allineato vicino a quello del ragazzo.
Il treno arrivò in orario.
La giovane donna scese rapida dalla carrozza. I lunghi capelli neri le incorniciavano il volto della felicità. La sua gonna ondeggiava nel via vai degli altri passeggeri che veloci si muovevano, si scostavano, si incontravano. La donna tenne la vecchia valigia stretta al fianco, si guardava attorno sconcertata da quella folla sconosciuta. Cercava un volto fra tanti.
La confusione andò scemando. Gli ultimi ritardatari si affrettavano all’uscita della stazione. La giovane donna era rimasta ferma nel posto esatto in cui era scesa.
Fissava la nube nera che si alzava sul cielo di Marcinelle.
Le lettere che aveva in mano caddero silenziose sulla banchina della stazione.
L’8 agosto 1956, a causa di un incendio, nella miniera belga di Marcinelle morirono 262 operai. 136 erano italiani.