Interrompo, mi sa per poco, la Woodstock virtuale che da un paio di settimane assilla la mia e altre bacheche con foto di bei musicisti del tempo che fu per relazionare di una magica serata, di quelle che di tanto in tanto passano ad Alessandria e qualcuno, purtroppo, non se ne accorge.
Allora, Teatro Parvum, sera di martedì 9 aprile, convocazione alle 21 per lo spettacolo dal titolo “Franca Mattiucci canta la sua Roma”, e a proseguire, per chi non c’era: programma di canzoni degli anni 50-60 tratte dal repertorio del grande Claudio Villa, con accompagnamento musicale del quintetto Le Muse, il maestro Andrea Albertini al pianoforte e la voce recitante di Rudi (Bargioni). Non abbiamo dimenticato nessuno, o forse Dado, per l’occasione prestatosi generosamente alle luci.
Al che mi pare già di sentirvi con i vostri ironici rimbrotti: ma tu che ci azzecchi con un prestigioso mezzosoprano italiano e Claudio Villa? Con una formazione di viole, violoncelli e violini e rime di Trilussa e del Belli?
Sbagliate, amici. Bisogna aprirsi ogni tanto – anzi no, sempre più spesso – alle diversità. Perché ci si arricchisce. E poi, sembrerà pure un po’ retorico, ma tutta la musica è bella. Senza distinzioni di genere.
D’accordo, per molti anni abbiamo evitato il reuccio perché la sua musica era in rotta di collisione con il nuovo avanzante, tra beat e nuovo rock, anni Sessanta e giù di lì. E poi Claudio, allora, non parlamentava affatto con il nemico, afflitto dalla nota tracotanza romanesca. Per di più uno dei miei traumi musicali della preadolescenza fu proprio “Binario, fredde parallele della vita – per me è finita” che per molto tempo, nel mio piccolo cervello ancora bambino, mi sembrò un inno al suicidio sulla strada ferrata. Ne ebbi tanta paura che per un po’ evitai persino di andare all’edicola della stazione a comperare “Diabolik”.
Ma il tempo è galantuomo, sempre. E serate come quella del Parvum servono a rivedere posizioni drastiche e a riscoprire mitologie di generazioni diverse dalla mia; peraltro oggi sono un acceso fan del Quartetto Cetra che, stolto me, da ragazzino sopportavo a malapena.
Tornando a Franca Mattiucci accompagnata dalle Muse, mi ritrovo qui a comporre l’elogio dell’ovvio: bravura e fascino di straordinario livello con un concetto della “reinterpretazione” che solo una valentissima professionista del suo calibro può permettersi. Ma la sorpresa della serata, inutile girarci attorno, è stato Rudi che ha letto Trilussa e Giuseppe Gioachino Belli con accenti di navigata “romanità”. Chi lo conosce da anni come me – sappiate che reputo il fatto un privilegio – è al corrente del fatto che l’uomo, quando si pone uno scopo, artistico, da raggiungere, arriva dove vuole e non si lascia scoraggiare da apparenti difficoltà. Potrei qui fare l’elenco delle sue “opere” declinate nel corso degli anni, dalla Festa del Cammello al progetto Definitives, dal Cortile all’Opera a una certa notte di vigilia natalizia sulla quale al momento non riesco per poca serenità a intrattenervi (ma il momento verrà…), ma lode suprema al nostro per avere saputo calcare il palco del Parvum in qualità di “voce recitante” con accenti romani talmente efficaci che in certi passaggi le parole si fondevano e si perdevano in un grumo verbale degno del sommo Aldo Fabrizi.
Qualcuna non la capivamo proprio, ma il senso sorretto dall’interpretazione c’era tutto e tutto fruibile. Al punto tale che a un certo punto, nella sala buia, in pieno clima felliniano da “gatto morto lanciato dalla platea nel film Roma”, si è levata una voce all’unisono con una pausa di silenzio all’indirizzo del nostro: «Abbono!», e per trenta secondi hanno prevalso le risate dell’avanspettacolo. Perché, è noto, Roma è stata anche e soprattutto questo.
Adesso so bene, per l’amicizia quarantennale, quale sarà la reazione, magari scritta, del Bargioni a questo articolo. Suonerà più o meno così: «Eri un babaciu allora e lo sei ancora oggi». Ok, ognuno ha gli amici che si merita.