di Andrea Antonuccio
“Modello femminile unico”, “Regina del palco”, “Donna delle sfide impossibili”. Alla morte di Mariangela Melato si è subito scatenata l’insopportabile melassa dei media -tutti- per coprire il vuoto lasciato dalla morte di una persona conosciuta e stimata.
Accade così che non siamo più capaci di tacere, di ascoltare quel silenzio pieno di domanda che ci aiuterebbe a stare davanti a quello che è successo a lei e succederà anche a noi, volenti o nolenti.
Mariangela Melato. La sua vita, i suoi film, il teatro di qui e il teatro di là, quella che ha recitato con tutti, che ha fatto solo capolavori. Il collega rintronato che “l’avevo vista l’estate scorsa e mi sembrava stesse bene”, o la regista che “sapevo della sua malattia ma lei non voleva che ne parlassimo”, il giornalista che “eravamo molto amici ma per pudore non ce lo dicevamo”. Tutta questa inutile retorica per non dire nulla, per occultare l’unica verità di cui possiamo essere certi: che “alla morte ogni fesso ci arriva”, come riportava Ennio Flaiano in uno dei suoi taccuini.
La morte, chiamandola per nome, è la cosa di cui meno ci importa parlare. Come se così, poveri illusi, potessimo tenerla lontano. Chi di noi, mi diceva un amico caro e profondo, può aggiungere anche solo dieci secondi alla propria vita, o alla vita di una persona cara?
La parola che nessuno osa pronunciare (a parte il Papa, che però è out in quasi tutti gli ambienti) è proprio quella che invece aprirebbe una possibilità: è la parola “Mistero”. Sarebbe interessante (per tutti) se cominciassimo a chiederci se questo Mistero è buono o cattivo, per esempio. O se è solamente un mistero buffo, una giullarata beffarda e irriverente che chiude lì il discorso, e buonanotte.
“L’importante é che la morte ci trovi vivi”, scriveva Marcello Marchesi nel suo impressionante libro-confessione “Il Malloppo”. Chissà, mi chiedo solo adesso, come ha trovato Mariangela.