Morire di lavoro

In un servizio televisivo da Taranto, nei giorni scorsi, si dava voce agli operai dell’Ilva, intenzionati a lavorare a tutti costi e al di là di qualsiasi verifica di tipo ambientale: “meglio morire di cancro che di fame”. Probabilmente peraltro non la pensano allo stesso modo tanti altri fra gli oltre 300 mila abitanti di quella città.

In uno speciale su La 7, qualche giorno prima, un ex operaio del polo chimico di Spinetta Marengo parlava con una certa fierezza del suo “naso bucato”, in sostanziale sintonia con lo spirito tarantino. E naturalmente emergeva anche una certa ostilità verso la gente che non ha più voglia di lavorare, ecc ecc.

Ilva, Eternit, Solvay, e chissà quanti altri esempi, a voler guardarsi attorno (ex fabbricazioni nucleari, ad esempio?). Certo, sul piano giudiziario tutte storie diverse, e non ci mettiamo certo qui ad emettere o anticipare sentenze. Sempre tardive comunque, e incapaci di ridare la vita a chi l’ha persa.

Ma è impossibile non constatare, con amarezza, che è una parte significativa degli addetti a chiedere di essere utilizzata come semplice forza lavoro, a prescindere dal livello di rischio per la salute che una certa attività professionale comporta. Meglio: si chiede l’oblio, si vorrebbe poter ignorare certe Cassandre, e lavorare sereni (ossia ignorando la situazione), che tanto è uguale. Quando ti tocca ti tocca, magari domani fai un incidente in auto e ci resti secco, e altre simili banalità.

“Ma guarda che sarà sempre così, che ti frega?”, mi dice il solito amico un po’ cinico, e un po’ realista, “certi lavori qualcuno deve pur farli, e se c’è chi è così ben disposto, tanto meglio”.

Quasi quasi, vi confesso, mi sta convincendo. E in fondo, se i lavoratori di cent’anni fa suscitavano piena solidarietà perché dovevano accettare condizioni di lavoro disumane per soddisfare bisogni primari (la sopravvivenza fisica propria e dei famigliari), tutto sommato una classe di lavoratori che desidera rischiare la pelle per soddisfare bisogni assolutamente indotti (l’auto da 20 mila euro, i gadget tecnologici, la seconda casa, le vacanze e completate voi l’elenco a piacere) non è che può suscitare tutta questa pietas, diciamocelo.

Però. Eh sì, un però c’è sempre. Quanti tra i morti casalesi (e non) di mesotelioma non avevano mai lavorato all’Eternit? E i decessi per certi tipi di cancro o leucemia in Fraschetta pensate che riguardino solo gli addetti del polo chimico?   Idem con patate, immagino, a Taranto, che è realtà lontana (ma uno stabilimento Ilva c’è pure a Novi Ligure, ricordiamocelo).

Quindi esigere la massima chiarezza sul fronte della salute pubblica è un diritto di noi tutti.
Così come chiedere che i responsabili di certi disastri ambientali paghino, sia a livello penale che sul piano dei costi reali di bonifica dei territori.

Se poi c’è chi si ritiene fortunato di lavorare in certi complessi industriali, e li difende a spada tratta, che lo faccia. E buona fortuna per la sua salute.

E. G.