Altro che accorpamento con Asti. Nei giorni scorsi Paolo Filippi è stato chiaro: con gli ulteriori tagli imposti dal decreto del governo sulla spending review (intorno ai cinque milioni di euro, secondo le prime stime: ed è la quarta manovra correttiva in 18 mesi) è più realistico prevedere il funerale della nostra come delle altre Province, che ragionare su future aggregrazioni.
Dall’altro lato di piazza della Libertà, a Palazzo Rosso, sappiamo bene che le cose vanno molto peggio, e il consiglio comunale sta per ratificare ufficialmente il dissesto dell’ente.
La realtà è che la politica di tagli promossa dal governo Monti è un fallimento senza mezzi termini, e sta semplicemente spostando verso il basso, sul territorio, la responsabilità di prendere decisioni impopolari, leggasi (non solo, ma anche) licenziamenti di dipendenti pubblici.
A cui in questo Paese è sempre stato fatto credere che, vinto un concorso, si ha diritto al posto fisso a vita, crollasse il mondo, anche se sono le stesse normative a dire che non è più così da tempo.
Del resto, un Paese che per continuare a pagare stipendi pubblici e pensioni aumenta a dismisura tassazioni dirette e indirette, taglia i servizi e disincentiva qualsiasi investimento produttivo è una comunità che si sta accartocciando su se stessa, senza un vero progetto capace di guardare al futuro.
Se non entriamo nell’ottica che l’esistenza di un qualsiasi ente pubblico è finalizzata all’erogazione di servizi e prestazioni alla cittadinanza, a costi sostenibili, e non a garantire stipendi a chi ci lavora, non ne usciremo mai. A meno naturalmente che non esploda una nuova “età dell’oro” e di crescita complessiva, che ci consenta di mantenere una macchina pubblica come quella attuale.
Ma qual è l’alternativa? Se togliessimo un milione di persone dalla pubblica amministrazione, con adeguati sussidi per un paio d’anni, e poi l’auspicio che costoro si rimbocchino le maniche e imparino a “sfangarla” da soli (come già tocca fare a tanti altri, del resto) risolveremmo i problemi del Paese, o semplicemente aumenteremmo il tasso di disperazione nelle fasce popolari?
Certamente sarebbe più probabile la seconda ipotesi, in mancanza di un rilancio complessivo, di “sistema” come si dice in questi casi, che latita, soprattutto a causa di una classe dirigente (politica, ma non solo) tra le meno credibili d’Occidente.
Volete pochi, semplici numeri per certificare il fallimento di chi, negli ultimi vent’anni, ha avuto in mano il timone d’Italia? Eccoli, da La Stampa di ieri: nel 1993 il debito pubblico italiano era al 115,6% del Pil, a fine 2011 (dopo 18 anni di proclami, slogan e null’altro) eccoci al 122% del Pil.
Non solo: il prodotto interno lordo italiano era, nel 1993, al 107% rispetto alla media europea. Oggi siamo in caduta libera: 94% rispetto all’Europa, che sempre più ci vede come zavorra, e provateci voi a sostenere che i tedeschi hanno torto.
Eppure oggi quella stessa classe dirigente che ci ha condotto al disastro, splendidamente incarnata dal presidente Napolitano e dal liquidatore fallimentare Monti (con alle spalle naturalmente i partiti e le forze sociali ed economiche che sappiamo) si è attribuita, senza passare dalle urne, il compito di rifondare il Paese. E come, soprattutto? Attraverso costossime e devastanti opere pubbliche come il Terzo Valico, che vale da solo, dato inquietante, tutti i tagli al sistema sanitario? Non è assurdo tutto ciò?
E. G.